Stato-mafia, una sentenza che s’insinua nella formazione del governo

Stato-mafia, una sentenza che s’insinua nella formazione del governo

La trattativa fra Cosa nostra e lo Stato non è una fiction per appassionati di serie-tv. La trattativa c’è stata, anzi con molta probabilità si è addirittura sdoppiata in due tempi ed ha attraversato il territorio di ben tre governi. Così ha stabilito la Corte d’Assise di Palermo che ha condannato a pene pesantissime quel che rimane del vecchio vertice mafioso, tre alti ufficiali del Ros e il politico Marcello Dell’Utri, che è stato il braccio destro di Silvio Berlusconi e cofondatore di Forza Italia.

Una vera bomba la sentenza pronunciata dal presidente Alfredo Montalto. Soprattutto perché inattesa, anzi data ormai per impossibile. Cinque anni di indagini dei pm palermitani, 800 mila pagine di atti, centinaia di udienze andate avanti nell’indifferenza generale, nella presunzione che il processo sulla trattativa fosse ormai «morto», ucciso dalle precedenti assoluzioni dell’ex ministro Calogero Mannino (che saggiamente si è distaccato scegliendo il rito abbreviato in solitudine) e del generale Mario Mori, già scagionato da un altro tribunale per fatti che con l’inchiesta chiusa ieri avevano qualche dimestichezza. A contribuire alla consunzione del processo - a giudizio di molti osservatori - contribuiva anche l’incerta figura di Massimo Ciancimino, nella difficile veste di imputato ma anche di collaboratore dei pm che con le sue dichiarazioni aveva portato molta acqua al mulino dell’accusa. Insomma, sembrava già tracciata la strada del nulla di fatto, dell’ennesima sconfitta dei pubblici ministeri. Restava, nell’immaginario, una sorta di scommessa sulla sorte che sarebbe toccata all’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza. Anche qui i pronostici sono saltati perché Mancino è stato assolto, come - d’altra parte - aveva lasciato intendere una precedente sentenza (su altri imputati) che negava l’esistenza della falsa testimonianza di Mancino.

E invece sembra proprio essere saltato il banco. E’ una sentenza, quella di ieri pomeriggio, destinata ad un grande potere deflagratorio. I vertici del Ros condannati per aver scelto la strada della ricerca di un «accordo» con la mafia, al fine di evitare altre stragi e, soprattutto, salvare la vita ad una classe politica entrata nel mirino di Cosa nostra, è già uno scandalo. Più scandaloso ancora è il fatto che più di un governo si sia convinto a cedere alla mafia, autorizzando - di fatto - un allentamento della morsa del carcere duro ai mafiosi, firmando centinaia di decreti che in sostanza abolivano il 41 bis. E se il Ros ha cercato il «contatto» con Vito Ciancimino, l’ex sindaco mafioso di Palermo, avrà pure avuto qualche avallo dell’esecutivo. Chissà se le motivazioni della sentenza, dissolveranno tutti questi dubbi.

Ma la decisione della Corte d’Assise non avrà conseguenze solo sulla comprensione del passato. Il «botto» ha ricadute anche sul presente e, in particolare, in questo delicato momento in cui i vertici dello Stato cercano pazientemente di mettere insieme una difficilissima maggioranza per formare un governo. I dodici anni inflitti a Marcello Dell’Utri - a prescindere da quello che il futuro e il certo ricorso in Appello riserverà - non passano certamente inosservati. È la seconda volta che il senatore viene ritenuto colpevole di mafia (la prima condanna è definitiva) e questa volta i fatti contestati si riferiscono anche ad attività di governo di Berlusconi. Dell’Utri, inoltre, è anche il cofondatore di Forza Italia: insomma non sembra proprio che la conclusione del processo di Palermo possa concorrere a raffreddare il clima generale, come le prime reazioni ci confermano.

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