«Non ce la faccio più, questa città non è la mia, sono cresciuta a Roma, parlo romano, ho il cuore romanista. Non voglio sposare un cugino scelto dalla mia famiglia, per diventare brutta e indesiderabile sono ingrassata 70 chili: è l’unica libertà che ho adesso». La voce che arriva da Dacca è quella di J.K., nata in Bangladesh 23 anni fa e arrivata poco dopo in Italia dove ha frequentato asilo, elementari, medie e superiori prima che nell’estate del 2014 il padre, impiegato in un hotel della Capitale, la riportasse in patria con la scusa di una festa di matrimonio e le togliesse passaporto, permesso di soggiorno in Italia (nel frattempo scaduto), il futuro. È la nuova strategia dei padri-padroni: allontanare le figlie dalle tentazioni ma soprattutto allontanare se stessi da una giustizia che li punisce senza sconti se uccidono in nome dell’onore o della sharia.

Adesso J.K. è lì, disorientata, prigioniera degli zii che la marcano stretta, terrorizzata se non di fare la fine di Sana Cheema quantomeno di non tornare mai più dai suoi amici italiani perché ha visto la determinazione del genitore quando si è trovato davanti gli inviati del Telefono Azzurro che lei aveva chiamato e li ha ascoltati, si è scusato umilmente, ha indossato una maschera affabile e tollerante fino a convincerla a quell’ultimo viaggio senza ritorno.

Per fortuna J.K. non è ancora un simbolo su cui piangere lacrime di coccodrillo, come Sana e prima di lei le tante Hina Saleem, ma racconta un grave cambio di passo nel resiliente dispotismo patriarcale che condanna al silenzio troppe giovani musulmane d’Italia.

«Le riportano in patria con l’inganno per allontanarle dalla vita occidentale o per regolare i conti là. Ce ne accorgiamo solo quando l’assenza in classe diventa impossibile da ignorare, avviene soprattutto prima dell’estate, quando si moltiplicano le richieste di aiuto» spiega Souad Sbai, tornata, dopo una lunga permanenza in politica, a dirigere l’Onlus Acmid Donna. I dati raccolti dal numero verde Acmid (800975174), a cui rispondono giorno e notte 5 volontari, indicano che nell’ultimo anno e mezzo è sparito dai radar il 60% delle studentesse musulmane iscritte alla scuola dell’obbligo. Souad Sbai ha presentato un esposto al Viminale: «E’ partito tutto all’inizio del 2017, quando tante magrebine hanno cominciato a ribellarsi sui social network. È lì che l’abbandono scolastico delle ragazze è decollato». Secondo l’avvocato Loredana Gemelli nel caso di delitto d’onore (reato abrogato in Italia nel 1981) la fuga nei Paesi d’origine permette di ricorrere all’«attenuante culturale» negata invece dai nostri Tribunali ai genitori assassini di Hina Saleem, Sanaa Dafani, Nosheen Khan Butt, tutti condannati almeno a 30 anni.

«Ero scappata con il mio fidanzato italiano ma mio padre ci ha ritrovati attraverso un amico e di fronte alla mia volontà inamovibile mi ha promesso che avrei potuto sposarlo a patto di fare le cose secondo di tradizione e andare a organizzare tutto in Marocco» racconta in chat Amal, 19 anni. Lei non è mai più tornata dalla Béni Mellal dove pensava di restare giusto il tempo di preparare le nozze e invece si è ritrovata in balia degli zii. Lui, minacciato, ha fatto un passo indietro. Come fanno le amiche italiane di queste figlie di un Dio minore, come fanno i professori che le indirizzano magari al Telefono Azzurro ma non s’immischiano oltre.

La Storia si ripete. Sul corpo delle donne si accaniscono marchiandolo la religione -in questo caso e oggi da noi l’islam - le tradizioni patriarcali, l’auto-ghettizzazione clanica dei migranti meno globalizzati e più insicuri.

«E’ difficile camminare tra due mondi se sei una ragazza, il tuo Paese d’origine è il Pakistan, la tua cultura d’appartenenza è diversa, i tuoi genitori t’insegnano certe cose ma crescendo ti accorgi che fuori è tutto diverso» ragiona Sabika Shah Po, 31enne giornalista italo-pachistana. È ancora più difficile se la famiglia proviene da zone rurali come quella della sua connazionale Sana Cheema: «Io sono stata fortunata, i miei sono arrivati a Roma 45 anni fa, c’erano pochi pachistani, abbiamo evitato il ghetto culturale. Quando a scuola uscivo con amici maschi mia mamma si raccomandava che non andassi dove c’erano i pachistani: mi avrebbero giudicato. Io ho fatto il liceo internazionale e non mi sono mai riconosciuta nei connazionali che abitano in periferia, promettevano le figlie ai parenti a 2 anni e le maritano a venti. Anche io ho dovuto mediare con i miei genitori, capisco il loro background sebbene non lo condivida, l’integrazione anche e soprattutto femminile procede per piccoli passi, i miei figli saranno più avanti di me».

La Storia chiede tempo. Da Dacca però J.K. ci chiede di ricordare che le piccole storie ne hanno poco, la sua non ne ha.

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