«Tu lo faresti un governo con i Cinque stelle?». Dopo giorni di inabissamento, trascorsi in gran parte a Firenze o chiuso nello studio da ex premier a Palazzo Giustiniani, Matteo Renzi ricompare in piazza nella sua città per le celebrazioni del 25 aprile. E, all’indomani dell’apertura che giudica sconsiderata del reggente Martina al M5S, e alla vigilia di un nuovo incontro dei dem con il presidente della Camera Fico, la passeggiata tra Santa Croce e piazza della Signoria è l’occasione per interrogare i suoi concittadini e cercare conferma alla sua linea. Consultazioni improvvisate, tra la gente che si avvicina a salutarlo, che si concludono perlopiù con una risposta univoca: «No, assolutamente, con il Movimento spariremmo».

Esattamente quello che vuole sentire, l’ex segretario ancora indispensabile nei numeri, a cui qualcuno nel partito sta chiedendo di tornare. Fino a qualche settimana fa era circondato da fedelissimi critici con la gestione Martina del partito, e si trovava a difenderlo nella insolita posizione della colomba. Ora, dopo aver assistito alle dichiarazioni del reggente sull’ipotesi governo, ma anche dopo la gaffe seguita da scuse con la famiglia Regeni, non lesina più critiche taglienti all’ex ministro dell’Agricoltura. Giudica dilettantesca e maldestra la gestione della trattativa per un eventuale accordo coi Cinque stelle, convinto che arrivarci sia un’operazione talmente acrobatica da richiedere molto più tempo e pazienza, per poter convincere tutto il partito, in gran parte ostile a Di Maio e compagnia, come dimostra a favor di orecchie di giornalisti nel suo sondaggio improvvisato in piazza. E ritiene che sia una sola la ragione dell’accelerazione del reggente e del pressing di altri dirigenti del partito, come Dario Franceschini: la paura del voto anticipato.

La strada delle urne

Un’eventualità che Di Maio ha lasciato cadere non casualmente proprio nelle sue dichiarazioni post-consultazioni con Fico: per il Movimento, se fallisse il tentativo col Pd, la casella successiva non sarebbe un governo del presidente. Per loro, il voto non è uno spauracchio, almeno stando ai sondaggi che li danno sempre su alte percentuali. Ma per i dem, precipitati al 18 per cento (in Molise al 9%...), l’ipotesi potrebbe essere drammatica. Come tanti hanno ripetuto in queste ore a Renzi, trovandolo però non troppo preoccupato. Intanto, è stato il suo ragionamento, saltato lo slot di giugno probabilmente si andrebbe alle urne nella primavera prossima, e in un anno molte cose possono cambiare: Salvini sarà ancora con Berlusconi? Nel M5S, si è interrogato con qualche amico, sarà il turno di Di Battista anziché Di Maio?

Domande senza risposta, variabili che lo portano a credere che ci potrebbero essere ripercussioni anche sul Pd, cambiando lo scenario e magari aiutando i dem a risollevarsi. Oltre alla considerazione cinica, tutta personale, di avere un suo elettorato e, a differenza di altri compagni di partito di cui non dimentica di sottolineare la sconfitta nei collegi uninominali, poter comunque essere rieletto: «Non ho mai detto che voglio andare a votare – ha ripetuto ai suoi rispolverando i toni muscolari di quando vinceva – ma non ho paura».

Il potere di veto

C’è un’altra ipotesi che gira: quella che la forza centripeta di un governo in grado di tenere in piedi la legislatura sia più forte del suo ascendente sui parlamentari. Insomma che tanti si convertano al «governismo» pur di non perdere lo scranno. Renzi lo sa e si è messo a far di conto, soprattutto al Senato dove la somma di M5S e Pd dà numeri risicati: ha calcolato che basta gli restino fedeli cinque o sei senatori per bloccare qualunque operazione sgradita. Per questo è certo di avere «potere di veto» sul negoziato di Martina coi Cinque stelle, quello che, si è convinto, solo lui avrebbe potuto portare in porto. Avrebbe potuto provarci, prima dell’accelerazione di martedì, ma ora, tra hashtag e consultazioni di piazza, non vede più lo spazio. E se anche dovessero abbandonarlo tutti, persino il giglio magico, pur di tenere in vita un governo, pensa che potrebbe sfruttare la situazione a suo vantaggio: potrebbe rompere col partito al grido di «io sono l’unico che rispetta il voto e non sto con il M5S che abbiamo sempre combattuto». Disaccordo sulla linea politica: la ragione più nobile per una scissione.

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