Nel cimitero dei governi mai nati, accanto alla lapide del patto grillo-leghista, stasera ne verrà posata un’altra: quella dell’accordo tra Cinque Stelle e Pd. È defunto domenica sera, quando Matteo Renzi l’ha stroncato a «Che tempo che fa», ma pietosamente provvederà la Direzione Pd a celebrare le esequie. Chi si cimenterà adesso nell’impresa impossibile? Sul Colle sono ore di riflessione che preludono a una difficile scelta. Di sicuro, sotto i cipressi, non si aggiungerà il cippo del governo Salvini. Pare escluso, infatti, che Sergio Mattarella voglia conferirgli un incarico nonostante il centrodestra lo rivendichi a gran voce. Il «no» presidenziale ha una chiara spiegazione: dei 60 giorni trascorsi dal voto, quasi la metà sono stati sperperati proprio nel tira-e-molla tra M5S e Lega su Berlusconi dentro o fuori, e su chi dovrebbe guidare il triciclo. Per tornarci su servirebbe qualche fatto nuovo che però non si vede. Salvini fa di tutto per dissuadere Mattarella: rifiuta di mettersi a capo di una maggioranza raccogliticcia, nello stesso tempo però rifiuta di avere rapporti con il Pd, e con l’unico alleato possibile (Di Maio) se le cantano allegramente. Dunque non si capisce quale maggioranza Salvini potrebbe mettere in piedi (tra l’altro si scatenerebbe l’ira degli Usa e delle cancellerie europee).

Il Colle in campo

Scartata pure l’ipotesi Giorgetti. Il numero due della Lega è persona ragionevole, con molti amici in tutti i partiti, perfino tra i renziani. I quali forse potrebbero astenersi, se fosse lui a guidare un governo. Ma nei contatti informali, i fan di Giorgetti si sono sentiti rispondere dal Colle con un mix di scetticismo e ironia: «Ah sì? Ottima idea, a patto però che il Pd si sbilanci ufficialmente». Cosa finora non avvenuta, e che forse non accadrà mai. Dunque, se nessuno cambia posizione, restando inchiodato alle proprie fisime, il Presidente non potrà far altro che mettere in gioco se stesso. Risulta che stia lavorando all’ipotesi tenuta in serbo per ultima, nella speranza di non doverla mai tirare fuori dal cassetto: il governo di tregua.

Orizzonte limitato

Mattarella ne vorrà ragionare con i vari protagonisti. Si preannuncia un terzo giro di consultazioni, finalizzato a sondare l’accoglienza che riceverebbe in Parlamento un esecutivo guidato dal presidente del Senato, o della Camera, o da qualche altra figura semi-istituzionale (ne circolano una quantità, tutte improbabili), con un orizzonte temporale molto limitato: il governo di tregua durerebbe al massimo fino a dicembre, per poi tornare alle urne nella primavera 2019. Un tempo comunque sufficiente per non lasciare la sedia vuota al Consiglio europeo di fine giugno, dove l’ultima tegola per l’Italia è che si parla di tagliare del 5 per cento i nostri fondi agricoli e del 7 quelli «di coesione» per il Mezzogiorno. Un governo di qui a fine anno permetterebbe inoltre di varare la legge finanziaria, scongiurando l’aumento stratosferico dell’Iva al 25 per cento conseguente all’eventuale esercizio provvisorio 2019. Non è da escludere che possa essere affrontato il tema della nuova legge elettorale.

Riecco Gentiloni

Se Mattarella troverà ascolto nei partiti, allora il governo di tregua verrà mandato in Parlamento a riscuotere la fiducia. Qualora invece Salvini e Di Maio alzassero le barricate, allora sul Colle verrebbe issata bandiera bianca e lo scioglimento delle Camere sarebbe ineluttabile. Per votare a luglio sembra ormai tardi, si riparla di ottobre. In quel caso, fino ad allora, Paolo Gentiloni resterebbe a Palazzo Chigi per gli affari correnti, cioè per disbrigare il nulla o quasi che si può fare, nel bene e nel male.

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