A oltre ventiquattro ore dalla chiusura dei seggi i risultati delle elezioni libanesi non sono ancora ufficiali. Ma il leader di Hezbollah ha già annunciato al Paese, e al mondo, di considerarsi il vincitore. L’introduzione del sistema proporzionale ha squassato il sistema libanese, basato sulla divisione paritaria dei seggi tra le comunità musulmane e quelle cristiane. Dai giorni dell’assassinio dell’ex premier Rafiq Hariri il sistema politico libanese però si è articolato in due blocchi: i fautori del progetto di Hariri, soprattutto sunniti e cristiani, e i fautori dell’alternativa filo iraniana e siriana guidata da Hezbollah. 

Gli accordi di pace di Taiff, che la Siria quale potenza occupante non aveva mai consentito che venissero pienamente attuati, prevedevano però che il 50% dei deputati fossero musulmani, l’altro 50% cristiani. Ma quegli accordi prevedevano anche che, nella seconda camera, gli eletti invece fossero scelti su base partitica e proporzionale. In tal modo, pensavano i padri delle intese di pace, il Libano sarebbe riuscito a uscire dalla spirale distruttiva della guerra civile garantendo ogni comunità ma riconoscendo al contempo a ognuno la sua dimensione individuale, politica, personale. Ma questo bicameralismo Damasco non lo ha mai consentito e la politica è finita nelle mani dei vecchi Zaim, i signori feudali. 

Ora tutto cambia di nuovo e l’equilibrio tra le due anime del paese salta. L’introduzione del proporzionale in un sistema che non prevede l’esistenza dei partiti politici è complessa. Chi più di ogni altro ha voluto questa riforma è stato il blocco sciita, organizzato intorno all’eccezione del “Partito di Dio”, unica milizia confessionale rimasta in armi dai tempi della guerra civile: da decenni il “gruppo” sciita mirava a far valere i propri numeri, essendo la comunità sciita quella che numericamente è cresciuta di più. Conquistare la rappresentanza proporzionale significava per loro conquistare il Libano. 

Forti del meccanismo che consentiva a un libanese di votare soltanto un candidato nativo della sua stessa città, il blocco sciita guidato da Hezbollah e da Amal ha messo insieme tutti gli elettori del sud e dei quartieri sud di Beirut, portando in Parlamento quasi il 40% dei nuovi eletti. Il blocco sunnita di Hariri ha invece perso la metà degli eletti, e i cristiani si sono divisi: una parte di loro si sono alleati con Hezbollah, riuscendo a limitare i danni in alcune aree del paese, mentre le aree tradizionalmente cristiane hanno votato il partito più marcatamente confessionale, le Forze Libanesi, mettendo in difficoltà il partito dell’ex generale Aoun, attuale presidente della Repubblica. A questo punto Hezbollah ha le chiavi del futuro del Libano, mentre Hariri ha limitatissime possibilità di guidare il prossimo esecutivo, pur prevedendo la legge che il premier sia un sunnita: ma l’ingresso in Parlamento del fratello dell’ex vice presidente siriano Karame e del miliardario Mikati, uomo d’affari legato agli Assad, offre delle alternative gradite al blocco sciita. 

Su tutto questo ha avuto certamente un grande impatto l’altissima percentuale di astenuti, circa il 50% degli aventi diritto al voto. Si tratta dei giovani di tutte le comunità, che non hanno voluto votare per appartenenza clanica. La convivialità libanese, fatta di amicizia tra persone di diverse appartenenze etniche e confessionale, rischia di smarrirsi in un ritorno identitario e identitarista che lascia poco da dire alla politica. Molti hanno parlato in queste ore di cupio dissolvi nazionale, di ritorno al buio della guerra civile. Forse sono esagerazioni, ma certo il tessuto libanese oggi appare più friabile, più fragile. Altri hanno parlato, acutamente, di «urbicidio»: la fine dell’epoca promiscua e coinvolgente della grande Beirut, la metropoli di tutti, che ha ceduto il passo ai richiami montanari delle diverse appartenenze. 

Ora è facile immaginare che il Libano farà ancora più fatica a trovare in sé la forza necessaria per confrontarsi con il dramma dei profughi siriani, una realtà numericamente superiore ad ogni altri comunità libanese, un milione e mezzo di persone che vivono ai margini di una società che la guerra ha ovviamente impoverito e che conta poco più di 3 milioni di persone. Il Libano purtroppo sembra alla vigilia di un autodiscioglimento nella grande tempesta siriana. E senza la rete di salvataggio che per decenni è stata offerta a tutti dagli accordi di Taiff, salvarsi sarà molto difficile. 

I cristiani, cuore del vecchio Libano, potrebbero ancora avere un ruolo cruciale in questo salvataggio, ma la loro spaccatura, una parte vicina ad Hezbollah, una parte ostile, sembra proprio confermare che il nuovo fulcro del Libano è quello, il teocratico partito dei guerriglieri di Hasan Nasrallah, che ieri sera ha annunciato alla nazione la sua vittoria con parole simili a quelle pronunciate da Bush nel 2003: «missione compiuta».  

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