In questi due giorni molto è stato detto, in modo esaustivo ed autorevole, sul magistero e l’attualità della testimonianza di Papa Montini: dal suo impegno per la pace a quello per la giustizia, dalle sue riforme alla sua strenua e profetica difesa della vita umana e della dignità della donna. Permettetemi qui di proporvi otto insegnamenti particolarmente attuali che ho tratto dallo studio della sua figura e dei suoi scritti lavorando alla sua biografia. Si tratta di insegnamenti aggiuntivi e non esaustivi, da leggere dunque come ulteriore approfondimento delle tante suggestioni che ci sono state offerte durante il convegno.

1. Sorprendono le dimensioni e la qualità dell'epistolario di Giovanni Battista Montini. Un sacerdote totalmente dedito al suo servizio, al suo lavoro in Segreteria di Stato («Montini ci fregava tutti - ha confidato nel 1979, ormai alla fine della sua vita, il cardinale Alfredo Ottaviani ad Andrea Riccardi - Era il primo ad arrivare in ufficio e l'ultimo ad andare via»). Eppure, nonostante la mole di lavoro tra le carte d'ufficio, gli incontri in Curia e la cura pastorale degli universitari, Giovanni Battista curava in modo particolare le amicizie, i rapporti epistolari: con i familiari innanzitutto, e poi con molti amici. Si rimane stupiti di fronte alla quantità di lettere, molte delle quali pubblicate. Lettere che ci parlano di un'attenzione, di una propensione, di un gusto dell’amicizia. Chissà come avrebbe usato l’email, se fosse vissuto nella nostra epoca. Di certo non lo si sarebbe visto compulsivamente attaccato allo schermo del computer, alla ricerca dell'ultimo tweet, dell'ultimo commento sui social.

2. Mi ha sempre folgorato una frase che ho ritrovato in un editoriale firmato da don Battista Montini su “Azione Fucinaˮ nel febbraio 1929. Perché descrive bene l’atteggiamento, lo sguardo del futuro Paolo VI verso il mondo. «Ed è così - scriveva - che il cattolico, fedele alla sua fede, può guardare al mondo non come ad un abisso di perdizione, ma come a un campo di messe». Il mondo rimane il mondo, con il suo carico di male e di zizzania. Le parole di Montini non hanno nulla a che fare con l'ottimismo ingenuo. Ciò che cambia, in realtà, è lo sguardo del cristiano. Il cristiano non vive ripiegato su sé stesso, rivolto nostalgicamente verso il passato. Non pensa a difendersi dalla secolarizzazione innalzando muri, costruendo la cittadella dei perfetti o rimpiangendo i tempi che furono. Il cristiano guarda al mondo non come a un abisso di perdizione ma come a un campo di messe. La realtà del peccato, della perdita di senso, rimangono nel mondo. È il cristiano a guardarle come una possibilità, un'opportunità per una nuova semina, per un nuovo annuncio. Come a un campo di messe.

3. Colpisce particolarmente constatare quanto l'episcopato milanese abbia cambiato Montini, innanzitutto nella consapevolezza della necessità di annunciare il Vangelo in modo nuovo. Quando lascia Roma mandato a fare il vescovo nella diocesi ambrosiana, Giovanni Battista Montini viveva da decenni nella capitale, a contatto con un cristianesimo che appariva ancora solidissimo, con le piazze strapiene di giovani, le grandi adunate attorno a Pio XII, il “Bianco Padreˮ che soltanto con un “gridoˮ o una “voceˮ poteva radunare “un esercito all'altarˮ, come recitava il testo della famosa canzone dell'Azione Cattolica molto in voga negli anni Cinquanta. Arrivando a Milano, metropoli più simile alle grandi capitali europee, Montini si rende conto di ciò che sta accadendo: un progressivo distacco e disinteresse nei confronti della fede cristiana, evidente in certe componenti della sua diocesi. Innanzitutto, le grandi periferie operaie, ma anche gli elitari mondi della finanza (con la quale Montini a Milano non avrà mai buoni rapporti, tanto da doversi affidare, per finanziare il progetto delle nuove chiese per il Concilio, ad Enrico Mattei, che nel salotto buono della finanza milanese non era mai entrato) e della moda. Il nuovo arcivescovo non arriva con progetti già fatti, con piani pastorali preconfezionati, con schemi già pronti, ma si misura con la realtà, si lascia ferire da essa e passando dalla cura pastorale di intellettuali e universitari a quella delle parrocchie e delle periferie, intuisce che il Vangelo va annunciato in modo nuovo. La grande Missione di Milano, destinata a caratterizzare il suo episcopato ambrosiano, nasce da questa intuizione, anche se la modalità con cui viene realizzata risente ancora troppo di schemi che il cambiamento profondo del tessuto sociale milanese rendeva superati. Montini ci insegna dunque a fare sempre fino in fondo i conti con la realtà.

4. A mio avviso, il vero “miracoloˮ compiuto da Paolo VI (al di là dei miracoli veri e propri riconosciuti dalla Congregazione delle cause dei Santi che lo hanno portato prima alla beatificazione e quindi alla canonizzazione) è quello del Concilio. Il vero miracolo di Papa Montini consiste nell’aver condotto in porto il Vaticano II facendo votare praticamente all'unanimità tutti i suoi documenti. Un esito per nulla scontato, se pensiamo a quale fosse lo stato dei lavori alla morte di Giovanni XXIII, alle inquietudini, alle divisioni interne tra la minoranza conservatrice, l’altra minoranza che voleva spingere sulle riforme, e consistente numero di vescovi che non si riconosceva né nell'una né nell’altra parte. Qualcuno potrebbe pensare ad un Paolo VI “democristianoˮ - come del resto la sua tradizione familiare indicava - e dunque capace di mediazione e compromesso in senso politico. Oggi, nei tempi in cui viviamo, l’essere “democristianoˮ in questo senso, e dunque l'essere capaci di mediazione e compromesso come richiede la politica (copyright Joseph Ratzinger), dovrebbero essere considerati un fulgido esempio. Ma sarebbe quanto mai incongruo leggere il ruolo di Paolo VI secondo queste categorie. In realtà per Papa Montini, fermo nella difesa dell’essenziale della fede, consapevole che la Chiesa per essere veramente cattolica è la Chiesa dell’et-et, il risultato condiviso dei lavori conciliari era qualcosa che attingeva all’essenza più vera e intima della fede cristiana e della Chiesa stessa. In questo senso vanno riletti, liberandoli da interpretazioni storiografiche troppo malevole, i suoi interventi correttivi dei testi conciliari, compiuti d’autorità, ad esempio sui testi relativi all’ecumenismo. E come non pensare, ad esempio, alla sintetica formula «nemo cogatur, nemo impediatur» (nessuno sia costretto, nessuno sia impedito) con la quale il Papa contribuì a sancire il diritto umano alla libertà religiosa definendolo come diritto a un terreno neutro, nel quale la coscienza di ciascuno doveva poter essere libera, mai costretta a professare un credo, mai impedita a professare un credo. Così Paolo VI accompagnò l'innegabile svolta avvenuta con Dignitatis humanae. L’atteggiamento di Papa Montini è anche un'indicazione per vivere il nostro tempo, in una Chiesa avvelenata nel suo DNA da una certa cultura dei social e dei blog, dove ci si odia quotidianamente e ci si attacca, dove tutti discettano di dottrina con botte e risposte sul filo dei secondi per rincorrere l’ultimo tweet, massacrando nel vero senso della parola la Chiesa stessa. E a condividere purtroppo questa mentalità sono oggi persino taluni uomini di Chiesa che occupano posti di responsabilità.

5. Un altro insegnamento che Papa Montini ci dona per l’oggi è questo: la Chiesa si serve anche soffrendo, senza confidare troppo sulle capacità umane, sulle strutture, sugli strumenti tecnici, sulle strategie a tavolino, sull'efficacia del marketing. Paolo VI è l’antitesi di una Chiesa che invece di indicare la luna, si ferma a contemplare se stessa, cioè il dito che indica (o dovrebbe indicare) la luna. Quella che ha testimoniato Montini è una Chiesa che non si crede fatta di “superuominiˮ. Illuminante a questo riguardo, sono queste parole di Paolo VI di fronte alla bufera della contestazione infraecclesiale, rivolte ai membri del pontificio Seminario lombardo, ricevuti in udienza il 7 dicembre 1968. Non sfuggano le date: siamo all'inizio della grande contestazione studentesca, ma già nel pieno della grande contestazione all'interno della Chiesa. E Montini dice: «Tanti si aspettano dal Papa gesti clamorosi, interventi energici e decisivi. Il Papa non ritiene di dover seguire altra linea che non sia quella della confidenza in Gesù Cristo, a cui preme la sua Chiesa più che non a qualunque altro. Sarà Lui a sedare la tempesta. Quante volte il Maestro ha ripetuto: “Confidite in Deum. Creditis in Deum, et in me credite!”. Il Papa sarà il primo ad eseguire questo comando del Signore e ad abbandonarsi, senza angoscia o inopportune ansie, al gioco misterioso della invisibile ma certissima assistenza di Gesù alla sua Chiesa. Non si tratta di un’attesa sterile o inerte: bensì di attesa vigile nella preghiera».

6. In tempi in cui avvertiamo come cruciale il rapporto con l’islam, giova ricordare l’assenso ufficioso ma necessario di Paolo VI alla costruzione della grande moschea di Roma, dato nel 1973. Giulio Andreotti, allora Presidente del Consiglio, ha scritto in proposito: «Non sto qui ad accentuare la delicatezza del carattere del Papa. Quando lo si vuol far passare per un uomo incerto, per un uomo preso da scrupoli, non è così. Aveva un enorme rispetto per tutti i suoi interlocutori. Considerava che, certamente, la verità non è qualcosa di opinabile, però bisognava fare in modo che chiunque avesse la possibilità di esprimere la sua verità e il suo concetto di verità. Non a caso, quando si cercò di tirarlo in mezzo per ostacolare la creazione della moschea a Roma, la sua risposta fu proprio all’opposto. Disse: no, questo arricchirà il carattere di civiltà universale della nostra città, che certamente è la Roma “onde Cristo è romanoˮ, ma è anche la Roma dove tutti devono avere la possibilità di parlare e di esprimersi». In colloqui confidenziali, Andreotti riferiva che la risposta del Pontefice bresciano a quanti nella Curia romana lo pregavano di bloccare l’iniziativa in nome della mancata reciprocità, era stata: «La Chiesa non si abbassa a questi livelli».

7. Ci sono molti punti che, al di là delle altrettante evidentissime differenze, uniscono le vite e le figure di Pio XII e di Giovanni Battista Montini. Una di queste è la capacità quasi di annullarsi e spersonalizzarsi nel servizio e nella missione pontificale alla quale sono stati chiamati. L’uomo Pacelli, così come l’uomo Montini, erano destinati a scomparire nell'immedesimazione con il compito ricevuto. Anche se Montini aveva sofferto per la nomina a Milano, da lui considerata e subita come un allontanamento. Ugo Piazza, originario di Faenza, ex fucino, amico di Montini e anche suo medico, aveva fatto visita al nuovo arcivescovo il giorno della pubblicazione della nomina, il 3 novembre 1954. Aveva trovato l’ormai ex pro-Segretario di Stato solo, in una stanza dell’appartamento e al buio, e ne aveva raccolto le parole di addolorata sorpresa: «Mi hanno tolto la firma». Eppure una persona intelligentissima e lungimirante qual era Pio XII, seppur convinto a cedere dalle pressioni del cosiddetto “Partito Romanoˮ ad allontanare Montini, non lo aveva certamente punito. Papa Pacelli non aveva acconsentito ad attribuire al suo più stretto collaboratore la guida di una diocesi italiana di media grandezza, come speravano gli avversari di Montini in Curia. Lo aveva nominato a Milano, nella diocesi più grande e prestigiosa del mondo, consapevole che quel passaggio lo avrebbe messo sul candelabro e ne avrebbe preparato il pontificato. Ecco, la spersonalizzazione, il non puntare o contare sul “personaggioˮ, la totale dedizione al servizio, l'immedesimarsi nel compito ricevuto, sono un insegnamento attualissimo.

8. Montini è stato un vero padre spirituale per una generazione di laici impegnati, quelli che hanno contribuito a ricostruire l’Italia del dopoguerra. Negli anni del Fascismo, quando la partecipazione alla vita politica era inibita, questi giovani guidati da Montini riflettevano sulla politica, sull’economia, sull’architettura che avrebbe dovuto riflettere il Paese dopo la fine della guerra e della dittatura. È stata una generazione che ha preso sul serio la Dottrina sociale della Chiesa. Coltivava grandi idee, rifletteva sul bene comune, non pensava a traguardi politici di piccolo cabotaggio, viveva un’esperienza spirituale intensa. Quell’esempio ci appare quanto mai attuale in un contesto nel quale il mondo cattolico italiano sembra spesso assopito, e anche i centri che più dovrebbero contribuire a sviluppare idee e progetti per il futuro mettendo in pratica i suggerimenti del magistero sociale dei Pontefici - mi riferisco innanzitutto agli ambiti accademici cattolici - sembrano altrettanto assopiti. Qualche anno fa, partecipando a un convegno sulla storia dei cattolici in politica nell’Italia dal 1870 ad oggi, mi ero dilungato sulle qualità del primo protagonista del dopoguerra italiano, Alcide De Gasperi. Un alto ecclesiastico seduto al tavolo dei relatori aveva osservato che oggi in giro «si vedono pochi De Gasperi» fra i laici cattolici. Avevo risposto: «Oggi se è per questo si vedono anche pochi Montini». Al di là della battuta, il senso dell’affermazione era la sottolineatura della forza educativa e dell’attenta cura pastorale che Giovanni Battista Montini aveva esercitato tra gli universitari della Fuci, in anni difficili per il Paese.

Vorrei concludere il mio intervento con un augurio: credo che alla mancanza di un’adeguata conoscenza popolare della straordinaria figura di Paolo VI abbiano purtroppo contribuito certi ambienti cosiddetti “montinianiˮ e quell'elite accademico-intellettuale che si è auto-nominata custode della sua figura, centellinandola per decenni in modo esclusivista e autoreferenziale. Sono convinto che bisogna liberare Paolo VI da certi sedicenti montiniani, così come occorre liberare Benedetto XVI da certi sedicenti ratzingeriani che riducono la complessità della figura, della teologia e del magistero di Ratzinger al cliché conservatore “Law & Orderˮ. E bisogna pure liberare Francesco da certi sedicenti bergogliani che guardano all'attuale Pontefice cercando di appiccicargli le loro agende personali (spesso stantie).

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