In una Roma dove è evidente «una generale e sana stanchezza delle parrocchie sia di girare a vuoto sia di aver perso la strada da percorrere», Papa Francesco invita ad «ascoltare il grido del popolo» e rifuggire dalla tentazione della «autoreferenzialità». Il rischio, anzi, i rischi sono molteplici e pericolosi: «sterilità», individualismo «ipertrofico», frantumazione sociale, «isolamento», «paura di esistere». Il divenire, insomma, un «non-popolo».

Bergoglio dialoga con la “sua” Diocesi nella basilica di San Giovanni in Laterano, dove arriva alle 19 in punto. Ad ascoltarlo ci sono tutti: vescovi e sacerdoti, religiosi e cappellani, suore, laici e operatori pastorali. Guidati dal vicario Angelo De Donatis, hanno concluso il cammino di riflessione sulle “malattie spirituali” avviato nelle diverse prefetture ad inizio Quaresima. 

Proprio prendendo spunto dalla sintesi dei lavori pervenuti dalle parrocchie e curata da una Commissione diocesana, il Pontefice snoda la sua riflessione. Ma prima risponde a braccio a quattro domande. Una riguarda uno dei suoi temi preferiti, i giovani, a partire dalle impressioni sul pre-Sinodo di metà marzo che ha visto a Roma 315 ragazzi collegati con altri 30mila in tutto il mondo: «Hanno lavorato seriamente anche fino alle 4 di notte per il documento che è bellissimo, forte», dice il Papa.

Torna quindi a denunciare il grave problema della droga, intesa anche come «alienazione culturale». «I giovani sono una preda facile... Le proposte che fanno ai giovani sono tutte alienanti: dei valori, della società, della realtà, propongono fantasia di vita.  Mi preoccupa - confessa Bergoglio - che loro comunichino e vivano nel mondo virtuale. Così, senza piedi per terra». Ricorda in proposito  la visita di venerdì alla sede romana di Scholas Occurrentes: «C’erano tantissimi giovani, facevano chiasso, chiasso. Erano contenti di vedermi, ma pochi davano la mano, la maggior parte stava col telefonino su: “Foto, foto, selfie, selfie!”. La loro realtà è quella, quello è il mondo reale, non il contatto umano. E questo è grave. Sono giovani virtualizzati. Il mondo delle comunicazioni virtuali è buono ma quando diventa alienante ti fa dimenticare di dare la mano, ti fa salutare col telefonino».

Allora, dice il Papa, bisogna «far atterrare i giovani nel mondo reale, senza distruggere le cose buone che può avere il mondo virtuale». In questo senso aiutano tanto le opere di misericordia: «Fare qualcosa per gli altri, concretizza». Anche è fondamentale il dialogo con gli anziani: «Con i genitori no perché sono di una generazione le cui radici non sono molto ferme»; invece il dialogo coi «vecchi» aiuta ai «giovani sradicati» a ritrovare le radici necessarie «per andare avanti».

Rispondendo ad un’altra domanda, il Papa critica la tendenza di tanti cristiani a «cercare le novità». Colpa anche un po’ di Roma dove «si trova di tutto, si impara la “tuttologia”... Puoi fare tutto in abbondanza, questo fa male allo stomaco, non ti fa digerire quello di cui hai bisogno», annota Francesco. Racconta poi l’aneddoto di un prete che predicava gli Esercizi spirituali seguendo «tecniche psicologiche orientaliste», ad esempio «consigliava alle suore, come prima cosa da fare la mattina, una doccia di vita... Tutte cose un po’ strane... Ha fatto sedere le suore in circolo e diceva: rilassati, buttati». Finché una suora di 60 anni, «una spagnola di quelle brave», dopo aver «digerito» si è alzata in piedi e ha esclamato: “Padre, sono venuta a fare gli Esercizi non ginnastica, grazie e arrivederci!». Ecco serve gente così per chi «cerca la panna senza la torta», gente «che ci tiri uno schiaffo per svegliarci», «una voce realista che dica: “Fermati e va all’essenziale”». Altrimenti, avverte Francesco, si finisce per diventare «più individualisti, più isolati, e la diocesi diventa una Chiesa gnostica: un Dio senza Cristo, un Cristo senza chiesa, una Chiesa senza popolo». E questo è un problema, perché « la pietà del popolo di Dio è il sistema immunitario della Chiesa». 

 

Francesco parla poi di «armonia», quella dello Spirito Santo, da ricercare «nella vita, nella comunità, nella diocesi» attraverso Vangelo («dobbiamo imparare a leggere un passo al giorno!»), preghiera e opere di misericordia. Anche consiglia, una volta individuata la propria «malattia», di andare a cercare «un ambulatorio» ovvero una assistenza spirituale da parte di una «anima buona» che non necessariamente dev’essere un prete: «L’accompagnamento spirituale è un carisma laicale dato col Battesimo».

Dopo le domande il Papa passa poi al «discorso formale»: «Sono 10 pagine se volete lascio lo scritto e vado a casa», scherza. Tra gli applausi generali spiega che il cammino sulle “malattie spirituali” («È la prima volta che sento l’esito di un prelievo diocesano») non si conclude qui ma, anzi, prosegue e si amplia per produrre «qualcosa di nuovo, di inedito e di voluto dal Signore». La Chiesa di Roma deve «riconciliarsi e riprendere uno sguardo veramente pastorale – attento, premuroso, benevolo, coinvolto – sia verso sé stessa e la sua storia, sia verso il popolo alla quale è mandata», afferma Bergoglio. Invita perciò ad avviare già il prossimo anno un itinerario finalizzato a raggiungere «nuove condizioni di vita e di azione pastorale, più rispondenti alla missione e ai bisogni dei romani di questo nostro tempo; più creative e più liberanti anche per i presbiteri». 

«Forse – osserva - ci siamo chiusi in noi stessi e nel nostro mondo parrocchiale perché abbiamo in realtà trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone che ci erano state affidate (quelle del nostro territorio, dei nostri ambienti di vita quotidiana)». Ci troviamo in una condizione «di limitazione soffocante, di dipendenza da cose che non sono il Signore», aggiunge, «ci siamo accontentati di quello che avevamo»: della «ipertrofia dell’individuo», ovvero quell’«io che non riesce a diventare persona, a vivere di relazioni, e che crede che il rapporto con gli altri non gli sia necessario», e delle nostre “pentole” (come quelle usate dagli israeliti nell’Esodo per cuocere mattoni che servivano al Faraone), cioè «i nostri gruppi, le nostre piccole appartenenze, che si sono rivelate alla fine autoreferenziali, non aperte alla vita tutta intera».

«Ci siamo ripiegati su preoccupazioni di ordinaria amministrazione, di sopravvivenza», sottolinea Papa Francesco. «È un bene che questa situazione ci abbia stancato e ci faccia desiderare di uscire». E, per uscire, il primo passo è «ascoltare il grido che sale dalla nostra gente di Roma: «Quante situazioni, tra quelle emerse dalle vostre verifiche, esprimono in realtà proprio quel grido!», afferma. «L’invocazione che Dio si mostri e ci tragga fuori dall’impressione che la nostra vita sia inutile e come espropriata dalla frenesia delle cose da fare e da un tempo che continuamente ci sfugge tra le maniespropriata dai rapporti solo utilitaristi e poco gratuiti, dalla paura del futuro». 

Un pensiero va infine a tutta quella «gente che magari non fa catechismo» ma che «ha saputo dare un senso di fede e di speranza alle esperienze elementari della vita», proprio «dentro quei problemi, quegli ambienti e quelle situazioni dalle quali la nostra pastorale ordinaria resta normalmente lontana». «La nostra Chiesa deve molto a persone rimaste anonime ma che hanno preparato l’avvenire di Dio», afferma il Pontefice. E conclude esortando le comunità romane a «generare un popolo», ovvero ad «offrire e generare relazioni nelle quali la nostra gente possa sentirsi conosciuta, riconosciuta, accolta, benvoluta, insomma: parte non anonima di un tutto». «Non dobbiamo inventarci altro noi siamo già questo strumento che può essere efficace, a patto che diventiamo soggetti di quella che altrove ho già chiamato la rivoluzione della tenerezza». Essa potrà essere arricchita «dalle sensibilità, dagli sguardi, delle storie di molti».

 

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