Dici Tel Aviv e pensi a tante cose. L’insostenibile leggerezza dell’essere che è anche l’alterego della religiosa e grave Gerusalemme; la capitale della Start-Up Nation; l’estate lunghissima negli infiniti locali sul Mediterraneo, lo stesso mare di Gaza; la movida notturna che tra un ristorante a una discoteca volteggia irriducibile alla paura; la guerra in agguato a una manciata di chilometri da questa minuta New York mediorientale eppure lontanissima. Ma, tra geopolitica e vita, Tel Aviv è anche la città bianca da oltre 4 mila edifici Bauhaus e modernisti riconosciuta dall’Unesco come Patrimonio dell’Umanità, un museo a cielo aperto che si visita, cartina alla mano, passeggiando all’ombra di palme e giganteschi Ficus Benjamin.

Un’idea se ne può avere in questi giorni dalla mostra “Tel Aviv the White City” in corso al Maxxi (fino al 2 settembre) nell’ambito delle celebrazioni per i 70 anni dalla nascita dello Stato d’Israele, uno spazio ridotto ma ricco di un centinaio di foto, schizzi, plastici e video che raccontano lo sviluppo architettonico di Tel Aviv tra gli anni ’30 e ’50, quando la città, progettata dall’urbanista scozzese Patrick Geddes (padre del centro di New Delhi), iniziava ad espandersi sull’onda delle migrazioni dall’Europa e tirava su, a partire dalla desertica Jaffa, il nucleo vitale di un Paese pioniere con le fondamenta nel passato ma lo sguardo rivolto al futuro.

La colonna vertebrale è il Bauhaus, la scuola di architettura e design nata a Weimar intorno a Walter Gropius (il prossimo anno ricorrerà il centenario) ed epurata dal nazismo. Le menti e le idee che ripararono allora nel nascente Stato d’Israele gettarono il seme di uno stile inconfondibilmente modernista e legato a filo doppio alle avanguardie europee.

La mostra, curata da Nitza Metzger Szmuk, è una finestra su questa armonia urbanistica che ammiccando ai padri nobili, da Gropius a Le Corbusier, fa perno sull’esagonale piazza Dizengoff e si allarga in molteplici linee di fuga, undici edifici campione per sintetizzare la razionalizzazione degli spazi, l’essenzialità delle forme. C’è il Liebling House, che a breve diventerà la sede del centro di ricerca sulla “Città Bianca”, Rubinsky House, Villa Weizman progettata da Erich Mendelsohn, l’Auditorium Mann e il padiglione d’arte contemporanea disegnati da Zeev Rechter senza nascondere le influenze europee, comprese quelle dell’italiano Giuseppe Terragni. C’è il mondo di ieri, la lucidità di una visione artistica e politica. Ma soprattutto ci sono gli spunti visivi per prenotare un aereo a andare a vedere di persona.

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