Da ieri sera, grazie a Open Arms e alle Chiese Evangeliche, tutti coloro che sono intervenuti alla presentazione del loro accordo sanno il nome di una ragazza completamente ustionata che è morta mentre tentava la traversata del mediterraneo: si chiamava Uluana, la sua vicenda, il canto che ha tentato di salvarla mentre soffriva, sono stati recuperati alla nostra storia, e lei ha ottenuto degna sepoltura. Ma in tanti altri casi non è andata così. Negli ultimi dieci anni oltre 30mila persone hanno perso la vita mentre tentavano la disperata traversata del Mediterraneo a bordo delle carrette del mare, stipate all’inverosimile dai mercanti di carne umani. Se questo numero non contempla uno zero in più lo si deve a chi, come Proactive, ha pattugliato giorno e notte il Mediterraneo. Soltanto loro hanno salvato 59mila vite umane. Per questo, a poche settimane dal dissequestro della Open Arms, le Chiese Evangeliche hanno voluto attestare di ritenere lo loro azione umanitaria indispensabile per le coscienze e per la legge, visto che la nostra Costituzione garantisce il diritto all’asilo «allo straniero al quale non sia consentito l’esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana».

Ma questo diritto oggi è in discussione e così nell’accordo di partenariato le parti si impegnano a promuovere attività per la sua difesa e quindi per la difesa del diritto a esercitare il soccorso in mare, impegnano la Federazione delle Chiese Evangeliche a partecipare con propri volontari alle operazioni di salvataggio di Open Arms e stabiliscono un contributo per la Ong spagnola di 10mila euro per le attività passate e di altri 10mila per quelle a venire. 

Premiando il comandante di Open Arms che per altri avrebbe dovuto collaborare con la guardia costiera libica, paese che né l’Italia né l’Europa riconoscono come paese terzo o di transito sicuro, Paolo Naso ha ricordato l’importanza del mutuo soccorso, una mutualità che è alla base della nostra cultura, ha ricordato poco dopo Luigi Manconi: «Sottraendo il termine mutuo alle nostre questioni immobiliari e recuperandolo alle questioni relative al soccorso scopriamo che solo soccorrendo potremo sperare che domani, se avremo bisogno, saremo soccorsi. Questa mutualità del soccorso ha fondato una cultura e va difesa, riaffermata, perché non è vero che l’Italia è diventata razzista: non è così. Il razzismo a mio avviso riguarda sparute minoranze, il problema vero, quello che ci attraversa, a volte ci pervade, è la xenofobia, la paura dello straniero. Ecco perché la questione dell’oggi è ripartire spiegando la bellezza fondativa del mutuo soccorso».

 

Per Manconi la discussione va posta in termini di valori, proprio come per la pastora Maria Bonafede, che ha ricordato l’importanza antica e continuativa dello straniero nella costruzione della morale. 

Senza mai parlare di sé, delle sue vicende personali, il comandante Riccardo Gatti ha ringraziato tutti i presenti ricordando che quello che loro fanno, il soccorso in mare, segue un obbligo normativo e un obbligo morale sempre rispettati. «Questa mattina abbiamo soccorso un barcone sul quale erano assiepate 300 persone. È importante per tutti voi salire almeno per un giorno su una nave che dà soccorso ai profughi. Li vedi in lontananza e noti che chiedono soccorso? A chi? Chiedono soccorso al mare, lo guardano molte volte senza indossare neanche il giubbotto. E tu sai che devi andare».

 

Dopo di lui ha preso la parola un volontario di Open Arms, Francesco Piobbichi, umbro che faceva l’insegnante, che ha lavorato anche per i corridoi umanitari, passando lunghe stagioni in Libano in questi ultimi anni: «Nessuno deve poter dire che non sapeva quello che accadeva intorno a lui. Nessuno deve poter dire che non aveva letto le condizioni in cui i profughi vengono tenuti in Libia, denutriti, assetati, privati dei più elementari diritti. Nessuno deve poter dire che ignorava le condizioni di trasporto. A Lampedusa c’era una tomba con un numero, 1824. Lì riposava una ragazza che è stata portata a forza sul balcone, completamente ustionata. Non è difficile immaginare cosa significhi per chi ha ustioni su tutto il corpo attraversare il Mediterraneo con gli schizzi di acqua salata che ti arrivano addosso, con il kerosene tra i piedi, sulle gambe. Allora i suoi compagni hanno cominciato a chiamarla per nome, perché restasse con loro: Uluana, Uluana, Uluana... per ore questa canzone ha riempito lo spazio Mediterraneo, come i richiami delle sirene. Il barcone procedeva, le onde erano grandi, ma quel canto è proseguito per ore, finché Uluana non ce l’ha fatta più. Quando sono arrivati i corpi sono stati portati al cimitero. Ma io ho detto che bisognava seguitare a ricordare il suo nome. Bisogna chiamarli uno per uno i morti affogati nel Mediterraneo. Non bisogna restituire un’identità soltanto a chi è arrivato vivo, ma bisogna restituire un nome, un volto, una storia anche a chi non è riuscito ad arrivare a Lampedusa. Quelle storie spezzate da guerre, da persecuzioni, da carestie, da torture, da fame, o quelle di chi seguita a cercare un parente, un figlio, un nipote, non rassegnandosi all’idea che non ci sia più, da anni. Nessuno deve poter dire che non sapeva. Per questo ho voluto disegnare i loro volti, i loro racconti, le loro disperazioni, le loro feste, le loro speranze, i loro colori».

 

I disegni di Francesco Piobbichi sono raccolti nel volume «Mare spezzato», presentato ieri: acquistarlo oltre a capire aiuterà Francesco a seguitare a raccontare queste storie rimosse dal nostro racconto, e Open Arms a raccoglierle, vive.  

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