Espressione di un massiccio mandato popolare ma titolare di un programma ambiguo, l’Italia gialloverde scuote l’Unione Europea dal di dentro, obbligandola a fare i conti con la rivolta populista.

Il governo Conte, frutto dell’intesa politica fra Cinque Stelle e Lega, ha una legittimità di stampo rivoluzionario: gli elettori sono oltre la metà dei votanti e si propongono di cambiare radicalmente l’establishment nazionale per sanare diseguaglianze economiche e illegalità di ogni genere con misure fiscali e di ordine pubblico senza precedenti. Come avviene nei momenti spartiacque di una nazione, tale ventata di novità è accompagnata da forti emozioni: piccoli imprenditori in fila dai commercialisti nelle città del Nord per sapere quando entrerà in vigore la «flat tax» e famiglie di disoccupati in fremente attesa nelle città del Sud del reddito di cittadinanza. La sovrapposizione fra entità delle aspettative e sostegno popolare dà bene l’idea dell’insoddisfazione dilagante nel ceto medio nei confronti dei partiti tradizionali, di colori diversi, che hanno governato nell’ultimo quarto di secolo.

Con una maggioranza più ribelle della «Grande Coalizione» di Angela Merkel in Germania ed una base popolare più ampia di Emmanuel Macron in Francia, la coalizione Lega-Cinque Stelle ha di fronte a sé anche una strada facilitata dalla debolezza degli avversari centristi che sembrano incapaci nel medio termine di coordinare un efficace contrasto parlamentare.

Ma tali vantaggi tattici dell’Italia gialloverde si scontrano con una debolezza strategica: l’assenza di una visione comune per il futuro del Paese e, dunque, anche per l’approccio all’Unione Europea di cui siamo stati fondatori nel 1957.

Grillini e leghisti non solo sono portatori di ricette economiche contrastanti - reddito di cittadinanza e «flat tax» - e prive di coperture finanziarie - stimate da Moody’s in circa 100 miliardi di euro - ma sembrano anche privi di un’idea comune di approccio all’Europa. Al loro interno infatti vi sono posizioni che vanno dal referendum sull’uscita dall’euro, proposto da Beppe Grillo, all’ostilità viscerale per le istituzioni di Bruxelles, espressa da Matteo Salvini, fino alla volontà di riformarle rimanendovi protagonisti, come suggerisce Giovanni Tria. Lo stesso vale per i rapporti con gli Stati Uniti: alcuni gialloverdi li considerano alleati ma altri contestano le missioni comuni in Afghanistan e Iraq preferendo guardare a Mosca. Per non parlare di chi nutre dubbi sulla presenza delle forze americane sulla Penisola.

La sovrapposizione fra legittimità popolare e contraddizioni politiche è il Dna con cui nasce il primo governo della Repubblica guidato da forze anti-establishment. È il certificato di nascita di un populismo di governo senza precedenti nell’Europa Occidentale, il cui elemento positivo viene dal rafforzamento della rappresentanza - spina dorsale di ogni democrazia - mentre quello negativo sta nella confusione programmatica, che può innescare pericolosi conflitti interni ed esterni. È proprio il carattere ondivago delle posizioni gialloverdi - dalla Tav al debito fino ai legami con Mosca - che desta inquietudine nei partner Ue e alleati Nato così come sui mercati finanziari, creando attorno al nostro Paese un alone di incertezza che proietta instabilità.

Da qui la necessità che il premier Conte ed i suoi ministri facciano in fretta chiarezza sui loro propositi, a cominciare dell’economia, dall’Europa e dai legami con la Russia. Spetta a loro declinare una ricetta per consolidare la crescita, ancora troppo debole rispetto alle altre democrazie industriali, chiarire quale approccio avranno all’Ue, ovvero se vogliono migliorarla o farla implodere, e scegliere se mantenere o rompere il fronte occidentale con il Cremlino. Saranno queste tre risposte a consentire di conoscere meglio l’Italia gialloverde che dopo aver conquistato il governo battendosi contro qualcuno - l’establishment italiano ed europeo - ora deve spiegare a favore di cosa vuole impegnarsi. Perché ambiguità ed opacità indeboliscono l’Italia.

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