Permettete il riassuntino: sabato sera Luigi Di Maio presenta alla piazza galvanizzata un imprenditore fallito per l’insolvenza dello Stato. La piazza rumoreggia e Di Maio la placa: «Non fischiate, adesso lo Stato siamo noi» (e si badi all’uso di «adesso»). Una blasfemia. Lo Stato non siamo noi che abbiamo vinto le elezioni, noi al governo: lo Stato siamo noi tutti quanti.

Lo Stato siamo noi, come la intende Di Maio, declinata al plurale, è roba da Re Sole, che la declinò al singolare. Bene, il giorno dopo salta su Carla Ruocco, simpatica pasionaria, e ci dà delle capre, siccome quella di Di Maio era «una citazione in onore di Piero Calamandrei, uno dei nostri padri costituenti»; e posta la copertina di un libro di Calamandrei il cui titolo è, appunto, «Lo Stato siamo noi». Solo che dei libri non bisogna leggere la copertina e basta, sennò si rischia di cadere in equivoco. Bisogna leggere anche tutte quelle parole fitte fitte che vengono dopo, sebbene occupino tante tante pagine.

Se la nostra Carla lo avesse fatto, avrebbe scoperto due cose. Prima: Calamandrei non ha mai detto né scritto «lo Stato siamo noi», quello è il titolo applicato a una raccolta definitiva e postuma dalla editrice Chiarelettere. Seconda: l’idea di Calamandrei, ben spiegata nell’introduzione del professore Giovanni De Luna, era l’opposto di quella di Di Maio, inclusiva e non esclusiva: nessuno è lo Stato, tutti devono essere lo Stato, un caposaldo della religione civile repubblicana. Però, visti i tempi, non avevano ragione né il Re Sole né Calamandrei ma, parafrasandolo, Caparezza: «Non siamo Stato noi».