Il 2017 è stato per il Kenya un anno carico di tensioni. L’8 agosto si sono tenute le elezioni presidenziali che, per la prima volta in un paese africano, sono state invalidate dalla Corte costituzionale per le comprovate accuse di brogli. La popolazione, stremata da diatribe etnico-politiche infinite e vessata da un livello di corruzione tra i più alti al mondo, è stata richiamata alle urne il 26 ottobre e ha vissuto i circa tre mesi di intervallo tra un voto e l’altro sospesa tra scontri e promesse di rivolte. Il leader dell’opposizione Raila Odinga, di etnia Luo, principale sfidante del presidente Uhuru Kenyatta, appartenente all’etnia Kikuyo, ha addirittura annunciato il ritiro dalla competizione e chiesto ai suoi di boicottare la tornata elettorale. Il voto ha registrato una bassa affluenza ma ha comunque riconfermato la vittoria di Kenyatta. Già dal giorno successivo al risultato, è cominciato un periodo talmente lungo e significativo di scontri, da far temere a molti che il Paese riprecipitasse nel caos seguito alle elezioni del dicembre 2007, quando la violenza si scatenò in molte aree e alla fine i morti furono oltre 1.200 mentre le persone costrette alla fuga più di 400mila.

Del tutto inaspettatamente, il 9 marzo scorso, i due leader rivali hanno sotterrato l’ascia di guerra e dichiarato fine alle ostilità. Da quel giorno, non perdono occasione di farsi fotografare insieme, di ostentare abbracci e strette di mano: nel corso della cerimonia annuale della «Giornata di preghiera nazionale» al Safari Hotel di Nairobi, il 31 maggio, hanno addirittura dichiarato di perdonarsi a vicenda le offese e gli attacchi e di volere marciare insieme per il bene del Paese. 

La Chiesa cattolica, che non ha mai smesso di richiamare alla pace e alla riconciliazione, ha tirato, assieme al resto della popolazione, un sospiro di sollievo. Ma, archiviata l’inaspettata armonia nazionale, guarda con preoccupazione alle sfide che il Paese deve affrontare, a cominciare dagli spaventosi problemi sociali che lo attanagliano, primi fra tutti l’estrema povertà cui è ridotto il 71% della popolazione (sotto il livello di povertà), il fenomeno degli street children (300mila) e la dilagante corruzione. Raggiunto nella sua residenza, monsignor John Oballa Owaa, vescovo di Ngong, una città satellite alla periferia di Nairobi, di 1,6 milioni di abitanti e 50mila kmq, ha accettato di parlare a Vatican Insider del momento della Chiesa e del Paese, delle sfide che attendono i cattolici, ma anche di formazione e inculturazione.

«Abbiamo vissuto momenti di grande paura, temevamo che la situazione precipitasse. I vescovi hanno rilasciato molte dichiarazioni per richiamare al senso di responsabilità e alla riconciliazione. La nostra scelta è quella di non essere direttamente attivisti politici, ma di lavorare dietro le quinte per incoraggiare l’armonia e creare un ambiente favorevole al percorso che conduce alla salvezza finale. Quando abbiamo letto dell’annuncio della ritrovata riconciliazione dei due leader il 9 marzo, le confesso che non credevamo ai nostri occhi, ancora adesso non sappiamo cosa abbia portato Kenyatta e Odinga a stringersi la mano e ignoriamo i contenuti dell’accordo. Ma siamo estremamente felici: dal giorno dopo, le tensioni sono clamorosamente diminuite, come un mare in tempesta che torna alla calma. Nel periodo di maggiore preoccupazione, a febbraio scorso, abbiamo voluto interloquire direttamente con i fedeli e inviato un questionario in cui domandavamo cosa fosse utile fare per favorire la riconciliazione e chiesto personalmente di impegnarsi per la pace. Abbiamo ricevuto decine di migliaia di risposte da tutto il Paese e compreso quanto fosse sentita la questione dai cattolici. Sono poi seguite dichiarazioni dei vescovi e la decisione di rilasciare il 7 giugno un documento congiunto assieme a leader di altre fedi e confessioni, per coinvolgere l’intero Paese in un percorso di riconciliazione». 

Il Kenya è uno degli Stati più sviluppati del continente africano e certamente tra quelli il cui livello di democrazia può essere considerato più evoluto: il fatto stesso che per la prima volta in Africa proprio in Kenya siano state accolte le istanze della minoranza e convocate nuove elezioni ne è certamente la prova. Ma allo stesso tempo, come dimostra Kibera, lo slum più grande di tutta l’Africa con oltre un milioni abitanti, conserva sacche di estrema povertà e presenta una serie di enormi problemi sociali.

«La Chiesa – riprende Oballa - cerca di rispondere con tante strutture di carità o riabilitazione. Abbiamo case per l’accoglienza di street children o per provvedere ai bisogni di cibo e rifugio. Ma siamo ben consapevoli che ciò non può bastare. La prima forma di carità è la creazione di giustizia. Un Paese che non riesce a sfamare i proprio bambini ha un problema enorme al suo interno, ma a cosa è dovuto? A un livello enorme di corruzione, la gente non ne può più. C’è una mancanza di strategie politiche di inclusività sociale e aumentano gli squilibri. Se si usassero le risorse si ridurrebbero i problemi. Anche riguardo alla povertà abbiamo fatto udire la nostra voce, l’ultima dichiarazione dei vescovi risale ad aprile e fa chiaramente riferimento a un inaccettabile livello di miseria». 

In passato lei è stato Rettore del seminario maggiore, crede che il modello di formazione nei seminari kenyani e africani sia rispondente alle domande dei futuri preti e della popolazione?

«Ho fatto il rettore del seminario in cui ho studiato io stesso e il modello è rimasto sostanzialmente uguale. I contenuti potrebbero anche andare bene ma ci sono alcuni punti che non cambiano mai. Io credo che esistano aree a cui dobbiamo prestare più attenzione: il mondo digitale, il cambiamento dei bisogni pastorali della maggioranza che è composta da giovani, insomma la formazione deve aprirsi di più a un mondo che pone sempre nuove domande. Io punterei di più sulla teologia pastorale, sull’antropologia e la socio-psicologia. La formazione, poi, non dovrebbe essere relegata solo all’interno dei seminari. Io immagino un anno di full immersion nelle realtà pastorali sia dopo l’ordinazione diaconale che quella sacerdotale».

Uno dei concetti principali su cui il sinodo africano del ’94 insistette, fu l’inculturazione. A che punto siamo? 

«L’inculturazione è importantissima, Dio si è fatto uomo e questa è la prima forma di inculturazione. Alcuni hanno fatto tentativi molto positivi, penso al cardinal Malula, all’esperienza del rito zairese (una forma di celebrazione eucaristica africana fondata sulla liturgia romana, approvata nel 1988, ndr) o al teologo tanzaniano Charles Nyamiti. Penso a chi ha provato a uscire dal modello unico della teologia speculativa per cercare una via teologica africana. Ma gli sforzi sono ancora troppo pochi. A ridosso del sinodo si respirava un grande entusiasmo, si organizzavano conferenze e corsi, ma devo dire che ora sembra che la marea sia scesa. La mia speranza è che il fuoco si riaccenda a partire da me. Non dimentichiamo che ci sono cristiani che ricevono la comunione la domenica e durante la settimana cercano conforto nelle religioni tradizionali, dobbiamo trovare nuove risposte. Mi auguro che la teologia africana sia sempre più presente nei seminari, senza che ciò significhi necessariamente dimenticarsi di san Tommaso d’Aquino».

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