«Oggi il grido che l’Amazzonia eleva al Creatore è simile al grido del popolo di Dio in Egitto. È un grido di schiavitù e di abbandono, che domanda la libertà e l’attenzione di Dio». Con queste parole il documento preparatorio del Sinodo speciale sull’Amazzonia in programma per l’ottobre 2019 definisce la situazione dei popoli del polmone verde del pianeta. Oggetto del Sinodo saranno i «nuovi cammini per la Chiesa e per una ecologia integrale», cammini che «devono essere pensati per e con il popolo di Dio che abita» in Amazzonia.

 

Nella foresta amazzonica, osserva il documento, «regione di vitale importanza per il pianeta, si è scatenata una profonda crisi causata da una prolungata ingerenza umana, in cui predomina una cultura dello scarto e una mentalità estrattivista». Riflettere sul futuro di questa regione significa protendersi «anche verso il futuro di tutto il pianeta». Nel documento diviso in tre parti – per «vedere, giudicare (discernere) e agire» - si afferma che bisogna «ascoltare i popoli indigeni e tutte le comunità che vivono in Amazzonia, come primi interlocutori di questo Sinodo».

 

Il bacino amazzonico rappresenta per il nostro pianeta una delle maggiori riserve di biodiversità (dal 30 al 50 % della flora e fauna del mondo), di acqua dolce (20% dell’acqua dolce non congelata di tutto il pianeta). Si tratta di più di sette milioni e mezzo di chilometri quadrati, che interessano nove Paesi, dove vivono e convivono popoli e culture diverse.

 

«Oggi, tuttavia, la ricchezza della foresta e dei fiumi amazzonici – si legge nel documento - si trova minacciata dai grandi interessi economici che si concentrano in diversi punti del territorio. Tali interessi provocano, fra le altre cose, l’intensificazione della devastazione indiscriminata della foresta, la contaminazione di fiumi, laghi e affluenti (per l’uso incontrollato di prodotti agrotossici, spargimento di petrolio, attività mineraria legale e illegale, dispersione dei derivati della produzione di droghe). A ciò si aggiunge il narcotraffico, che, sommato a quanto detto, mette a repentaglio la sopravvivenza dei popoli che dipendono delle risorse animali e vegetali di questi territori».

 

D’altra parte, le città dell’Amazzonia «sono cresciute molto rapidamente, accogliendo molti migranti e profughi costretti a fuggire dalle loro terre e sospinti verso le periferie dei grandi centri urbani». I movimenti migratori dalla foresta alle città sono stati imponenti e attualmente «fra il 70 e l’80% della popolazione della Panamazzonia risiede nelle città. Molti di questi indigeni non hanno documenti o sono irregolari, rifugiati, abitanti delle rive dei fiumi o appartengono ad altre categorie di persone vulnerabili. Di conseguenza cresce in tutta l’Amazzonia un atteggiamento xenofobo e di criminalizzazione verso i migranti e i profughi».

 

Nei nove Paesi che compongono la regione panamazzonica si registra la presenza di circa tre milioni di indigeni, che rappresentano quasi 390 popoli e nazionalità differenti. Tra questi ci sono tra i 110 e i 130 Popoli Indigeni in Isolamento Volontario (PIAV) o “popoli liberi”, chiamati anche “invisibili”: sono i più vulnerabili perché non possiedono strumenti di dialogo.

 

Il documento ricorda come e quando la Chiesa abbia iniziato ad alzare la voce in difesa dei popoli indigeni. E cita le parole di san Giovanni Paolo II che definì il trasferimento forzato di un enorme numero di africani come schiavi un «olocausto sconosciuto» al quale «hanno preso parte persone battezzate ma che non hanno vissuto la loro fede».

 

Ma «ciò che spaventa è che fino a oggi, dopo 500 anni dalla conquista, dopo all’incirca 400 anni di missione ed evangelizzazione organizzata e dopo 200 anni dall’emancipazione dei Paesi che compongono la Panamazzonia, simili tendenze continuano a svilupparsi sul territorio e tra i suoi abitanti, vittime oggi di un neocolonialismo feroce, mascherato da progresso. Probabilmente, come ha affermato Papa Francesco a Puerto Maldonado, i popoli originari amazzonici non sono stati mai così minacciati come adesso».

 

«Il rapporto armonioso fra il Dio Creatore, gli esseri umani e la natura – si legge ancora nel documento - si è spezzato a causa degli effetti nocivi del neoestrattivismo e della pressione dei grandi interessi economici che sfruttano il petrolio, il gas, il legno, l’oro, e anche a causa della costruzione di opere infrastrutturali (per esempio: megaprogetti idroelettrici e reti stradali, come le superstrade interoceaniche) e delle monocolture industriali». E «si impongono nuovi colonialismi ideologici mascherati dal mito del progresso, che distruggono le identità culturali proprie». Ma la minaccia contro i territori amazzonici «viene anche dalla perversione di certe politiche che promuovono la “conservazione” della natura senza tenere conto dell’essere umano».

 

Proteggere i popoli indigeni e i loro territori è dunque «un’esigenza etica fondamentale e un impegno fondamentale per i diritti umani. Per la Chiesa ciò si trasforma in un imperativo morale coerente con la visione di ecologia integrale di Laudato si’».

 

Nella seconda parte del documento, dedicata al discernere, dopo aver elencato i fondamenti biblici ed evangelici, si ricorda che «la missione evangelizzatrice ha sempre un contenuto ineludibilmente sociale». L’opera dell’evangelizzazione «ci invita – prosegue il documento - a lavorare contro le disuguaglianze sociali e la mancanza di solidarietà mediante la promozione della carità e della giustizia, della compassione e della cura, certamente fra di noi, ma anche nei riguardi degli altri esseri, animali e piante, e di tutta la creazione. La Chiesa è chiamata ad accompagnare e a condividere il dolore del popolo amazzonico e a collaborare alla guarigione delle sue ferite, mettendo in pratica la sua identità di Chiesa samaritana, secondo l’espressione dei vescovi latinoamericani». Nel testo si ricorda che «non prendersi cura della Casa Comune è un’offesa al Creatore, un attentato contro la biodiversità e, in definitiva, contro la vita».

 

Il processo di evangelizzazione della Chiesa in Amazzonia «non può prescindere dalla promozione e dalla cura del territorio (natura) e dei suoi popoli (culture). Per questo, ha bisogno di stabilire ponti che possano articolare i saperi ancestrali con le conoscenze contemporanee, particolarmente quelle che riguardano l’utilizzo sostenibile del territorio e uno sviluppo coerente con i sistemi di valori e con le culture dei popoli che abitano questi luoghi, da riconoscere come loro autentici custodi, e in definitiva come loro proprietari».

 

Il Sinodo, si precisa nel documento, «ha bisogno di un grande esercizio di ascolto reciproco, specialmente di un ascolto tra il popolo fedele e le autorità magisteriali della Chiesa. Una delle cose principali da ascoltare è il gemito di migliaia di comunità private dell’Eucaristia domenicale per lunghi periodi». È stata la riunione dell’episcopato latinoamericano di Aparecida (2007) a evidenziare questo “gemito”. Una risposta – che non è citata nel documento – potrebbe essere rappresentata dall’ordinazione sacerdotale di uomini sposati, maturi e dalla fede solida (viri probati).

 

Nella terza parte, dedicata all’agire, si danno delle indicazioni per «nuovi cammini». Il Sinodo sarà chiamato «a individuare nuovi cammini per far crescere il volto amazzonico della Chiesa e anche per rispondere alle situazioni di ingiustizia della regione, come il neocolonialismo delle industrie estrattive, i progetti infrastrutturali che danneggiano la biodiversità e l’imposizione di modelli culturali ed economici estranei alla vita dei popoli». Così facendo, la Chiesa «si rafforza costituendosi come un’alternativa di fronte alla globalizzazione dell’indifferenza e alla logica uniformizzante incentivata da tanti mezzi di comunicazione, così come a un modello economico che non è solito rispettare i popoli amazzonici e i loro territori».

 

«Si deve trovare un equilibrio – afferma il documento - e l’economia deve privilegiare la sua vocazione in favore della dignità della vita umana. Questo rapporto di equilibrio deve tutelare l’ambiente e la vita dei più vulnerabili». Riprendendo le parole di Papa Francesco, il documento spiega che «è necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare» dalle popolazioni indigene e dalle loro culture, e che «il compito della nuova evangelizzazione richiede di prestare ad essi la nostra voce nelle loro cause, ma anche [siamo chiamati] ad essere loro amici, ad ascoltarli, a comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci attraverso di loro. Di conseguenza, i loro insegnamenti potrebbero indicare la direzione delle priorità per i nuovi cammini della Chiesa in Amazzonia».

 

È necessaria una presenza più capillare della Chiesa, resa difficile dall’«immensa estensione geografica, tante volte di difficile accesso». I nuovi cammini per la pastorale dell’Amazzonia «esigono di rilanciare l’opera delle Chiesa nel territorio e di approfondire il processo di inculturazione, che domanda alla Chiesa amazzonica di avanzare proposte coraggiose, fatte con audacia e senza paura, come ci chiede Papa Francesco». Per questo, viene detto, è urgente valutare e ripensare i ministeri che oggi sono necessari per rispondere agli obiettivi di «una Chiesa con un volto amazzonico e una Chiesa con un volto indigeno».

 

«Occorre individuare – si legge nel testo - quale tipo di ministero ufficiale possa essere conferito alla donna, tenendo conto del ruolo centrale che le donne rivestono oggi nella Chiesa amazzonica. È altresì necessario sostenere il clero indigeno e nativo del territorio, valorizzandone l’identità culturale e i valori propri. Infine, bisogna progettare nuovi cammini affinché il popolo di Dio possa avere un accesso migliore e frequente all’eucaristia, centro della vita cristiana». E questi nuovi cammini «dovranno incidere sui ministeri, sulla liturgia e sulla teologia (teologia india)».

 

Infine, il documento afferma che «c’è bisogno di una spiritualità di comunione fra i missionari autoctoni e quelli che vengono da fuori, per imparare insieme ad accompagnare le persone, ascoltando le loro storie, partecipando ai loro progetti di vita, condividendo la loro spiritualità e facendo proprie le loro lotte. Una spiritualità con lo stile di Gesù: semplice, umano, dialogante, samaritano, che permetta di celebrare la vita, la liturgia, l’eucaristia, le feste, sempre rispettando i ritmi propri di ogni popolo». Il testo si conclude con una serie di domande per stimolare la discussione preparatoria.

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