I governi di Israele e dell’Indonesia si scontrano sulle violenze nella Striscia di Gaza. A farne le spese rischiano di essere i pellegrini della minoranza cristiana indonesiana che potrebbero non poter più recarsi a Gerusalemme. È l’ultimo capitolo abbastanza paradossale della guerra dei boicottaggi, uno dei volti che in questi ultimi anni ha assunto lo scontro tra israeliani e palestinesi, in assenza di iniziative politiche per rilanciare il processo di pace.

Il caso è legato alle tensioni nella Striscia di Gaza, con il braccio di ferro intorno alla “Marcia del ritorno”, la protesta promossa ogni venerdì da alcune fazioni palestinesi con l’obiettivo di rompere l'isolamento imposto da Israele al territorio governato da Hamas. Le immagini della dura repressione dell’esercito israeliano - con più di un centinaio di morti palestinesi in queste settimane - hanno spinto il governo di Jakarta ad attuare una forma di boicottaggio filo-palestinese: alla fine di maggio il ministero degli Esteri ha iniziato a rifiutare il rilascio del visto di ingresso ai turisti israeliani diretti alle spiagge di Bali. A quel punto, però, il governo Netanyahu ha risposto con una ritorsione speculare: ha annunciato che farà la stessa cosa con gli indonesiani diretti in Israele. Solo che questa misura «contro un governo solidale con Hamas» va a colpire di fatto quasi esclusivamente i cristiani, che rappresentano circa il 10% dei 260 milioni di abitanti dell’Indonesia.

Il provvedimento doveva entrare in vigore oggi, ma all’ultimo momento è stato posticipato al 26 giugno per via delle proteste dei tour operator israeliani che hanno numerosi gruppi in arrivo per viaggi già definiti. Al di là dell’aspetto politico, a rendere questa storia significativa sono i numeri importanti in gioco: i pellegrini indonesiani sono infatti uno dei volti nuovi dei pellegrinaggi in Terra Santa, dove i flussi provenienti dall’Estremo Oriente crescono di anno in anno. I dati ufficiali del ministero del turismo israeliano parlano di 36 mila visti rilasciati agli indonesiani nel 2017; e incrociando questo dato con le statistiche dei francescani si scopre che sono quasi tutti cattolici.

Sono stati infatti ben 905 i gruppi accolti l’anno scorso per celebrazioni al Santo Sepolcro, per un totale di oltre 30 mila persone. Numeri che pongono gli indonesiani al terzo posto in assoluto tra i pellegrini cattolici in Terra Santa, preceduti solo dai gruppi provenienti dagli Stati Uniti e dall’Italia. E diventano ancora più significativi se si pensa che Israele e l’Indonesia non hanno relazioni diplomatiche formali e quindi - per esempio - non c'è mai stato un investimento sui collegamenti aerei (al punto che la stragrande maggioranza dei gruppi da Jakarta atterra ad Amman, in Giordania, per entrare poi in Israele via terra dal ponte di Allenby).

Tutto questo ora è a rischio per la battaglia sui visti: il governo israeliano dice che ritirerà il blocco solo quando Jakarta avrà fatto altrettanto. Ma la crisi a Gaza continua e dall’Indonesia non ci sono segnali di ripensamento. Il risultato è che a farne le spese è una comunità cristiana già alle prese in patria con il radicalismo islamico in crescita preoccupante anche in un contesto dove la dottrina della Pancasila era stata sempre indicata come un esempio incoraggiante di tolleranza e convivenza nel mondo musulmano.

È appena di qualche settimana fa lo shock per gli attentati alle chiese di Surabaya, la seconda città del Paese; mentre l’ex governatore di Jakarta, il cristiano Ahok, sta scontando una condanna a due anni per blasfemia dopo un processo cavalcato proprio dai movimenti islamisti. Se davvero dovesse andare avanti, quindi, questa vicenda su Gerusalemme non farebbe altro che aumentare ulteriormente l’isolamento dei cristiani indonesiani; oltre ad interrompere un’esperienza concreta di incontro tra popoli e culture diverse in Terra Santa.

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