Docente alla Saint Joseph University di Beirut, la principale istituzione culturale dei gesuiti nel Levante, il professor Antoine Courban è appena tornato dagli Stati Uniti dove è stato invitato in occasione di un simposio ecumenico dal cardinale Joseph Tobin. «Lo stile di Papa Francesco si afferma: lo dico perché quando sono andato a salutare il cardinale ovviamente gli ho detto “lieto di conoscerla Eminenza” e lui mi ha risposto: “Joseph, mi chiamo Joseph”. Conosco i mondi ecclesiastici; il mio, quello ortodosso, quello maronita in particolare e altri, anche qualche cardinale e mai un saluto di presentazione è stato così. E lo stile è sostanza».

Non tanto sorpreso ma interessato dall’approccio gli ho chiesto, quasi scherzoso, se durante l’incontro avesse notato che anche il cardinale Tobin conia nuovi vocaboli: «Papa Francesco - gli ho detto - ne conia tanti, a cominciare dal famoso “no balconear la vida”, per dire che non bisogna trascorrere la vita da spettatori, in finestra». «Davvero? Questo conferma che Francesco è in una straordinaria sintonia con l’uomo di oggi, con i suoi drammi profondi - dice -. L’uomo di oggi è proprio come diceva degli arabi il grande intellettuale Samir Kassir, “un uomo rassegnato”. La frase globale da cui nasce questa rassegnazione non più soltanto araba è questa: “sono tutti corrotti”. Credo sia la consapevolezza di questo che lo ha spinto a dire: “Peccatori sì, corrotti no”. Questa idea che siano tutti corrotti infatti ha spinto molti, sempre più numerosi nel mondo, in tutto il mondo, ad astenersi alle elezioni politiche: ora apprendo che il Vescovo di Roma dice di non “balconear la vida”. È proprio questo il punto: la rassegnazione cosa ha prodotto? Ha prodotto un nuovo nichilismo riducendo molti a dei colini attraverso i quali passa tutto: afasico, incline all’amnesia, apatico, l’uomo rassegnato si è convinto di non poter nulla davanti a una realtà nei confronti della quale non ha alcuna presa». 

«Quest’uomo è molto simile a quello che Francesco ha definito un uomo dalla coscienza isolata», spiega Courban. «Pur di sopravvivere accetta tutto, è per l’appunto un colino attraverso il quale passa anche la dittatura, come qui nel Levante sappiamo purtroppo molto bene. In queso modo da vittima diventa attore, protagonista delle sue sofferenze, del suo dolore, convinto che non ci sia altro da fare. Ma questo nichilismo davanti alla realtà che lo ha generato può portare anche altrove, può portare ad innamorarsi dell’abisso e del nulla, arrivando, attraverso l’esaltazione mortifera prodotta dalla disperazione a legittimare una violenza apocalittica. L’Isis è il principale prodotto di questa deriva interiore. Sono nichilisti che scelgono un kit prefabbricato, per dare voce alla loro rabbia, gloria alla loro ferocia disperata. Se guardiamo da vicino l’islamismo radicale organizzato notiamo sorprendenti analogie con le dittature fasciste, se lo spogliamo del velo religioso di cui si ammanta. L’indottrinamento c’è, i finanziamenti pure, ma la molla è la scomparsa di ogni fede. L’uomo rassegnato in questo caso è diventato un uomo disperato e apocalittico». 

Nasce di qui anche il bisogno di tanti immigrati di seconda generazione in Europa di ritrovare un’identità, che non hanno più nelle origini dei loro genitori e nel loro nuovo contesto, che li rifiuta e che rifiutano. «Questo - sottolinea il professore - ha generato un inverso e analogo rifiuto del musulmano, identificato con l’Isis. I diversi uomini rassegnati si incontrano in un gioco di specchi nella ricerca di un’identità che sentono traballare e la trovano nel rifiuto dell’Altro. Davanti a queste derive la tenuta dell’Europa è fondamentale per tutti. Molto spesso si è detto che il Libano è un messaggio, un messaggio arabo di convivenza: questo messaggio si coglie nelle stesse strade di Beirut durante il Ramadan: siamo qui, in questo giorno di Ramadan, seduti in un caffè del quartiere per antonomasia musulmano della città, ma guarda quanti avventori, tutti sereni, tanti di loro all’aperto, baciati dal sole, altri come noi protetti dall’aria condizionata. Questo qui è normale, da sempre, nessuno lo nota più, nessuno si sorprende, il messaggio di Beirut e del Libano ci sono ancora, lo dimostra la quotidianità. Ma l’Europa unita è un messaggio di valore universale, un messaggio di convivialità e di pace che parla a tutto il mondo. Chi non sa che appena settant’anni fa vi siete combattuti orribilmente...».

A salvaguardare questi messaggi e il loro valore, nel caso europeo messaggio universale, Antoine Courban vede «solo Francesco con il patriarca di Costantinopoli, Sua Beatitudine Bartolomeo, e l’invito a “non balconear la vida” mi conferma nella convinzione. Bartolomeo, il patriarca ecumenico dell’ortodossia, ha rilanciato per primo la grande teologia cristiana dell’uomo custode del creato. Questa custodia riguarda la natura e la dignità di ogni uomo, creato a somiglianza di Dio. Con altra influenza globale Francesco è la voce di questa teologia cosmica. Lui è il Vescovo di Roma, può comunicare alla più vasta audience l’urgenza di salvare il creato e il custode del creato. E’ lui che ci invita a riconoscerci, a capire che l’origine della crisi è politica, cioè culturale, crisi di senso. Per riuscirci occorre agire a livello globale, non nazionale o locale. Ma l’Onu ha fallito, quindi solo Roma può riuscirci, con la sua autorità globale».

I toni del professor Courban sono usualmente bassi, il suo argomentare accompagnato da un’affettuosità umana, che echeggia trasformandosi in richiesta di empatia quando proseguo il discorso con Michel Hajgeorgiu, firma di punta del principale giornale cristiano di Beirut, L’Orient Le Jour. «La tragedia siriana ha avvelenato l’acqua dei pozzi con profumi di gran moda: identità, riscatto, tutela. Così siamo entrati in un’epoca buia dalla quale non so come usciremo e quando, perché il sangue siriano griderà nelle nostre notti per anni e anni, senza lasciarci dormire. È troppo grave quel che è accaduto in questi sette anni, è troppo grave quel che si è sopportato. Quando ho letto che a Lampedusa, visitando i profughi, anche siriani, Papa Francesco ha evocato il famoso grido biblico “dov’è tuo fratello?” non ho potuto non chiedermi se noi quel grido lo abbiamo sentito mentre questa tragedia si svolge a due passi da noi. Vivere nella gloria della paura ci condanna a temere noi stessi, a non riconoscerci più per quel che eravamo. La nostra risposta non può seguitare ad essere: “Sono forse io il custode di mio fratello?”». 

«Come non prendere atto - dice Hajgeorgiu - che questo inferno ha alimentato enormi tensioni identitarie, violenza, intolleranza, discriminazione e rifiuto dell’Altro, qui, in Europa e oltre l’Europa, tutte pulsioni che minacciano la democrazia e l’uguaglianza dei cittadini: forse possiamo solo sperare che l’autorità morale stimoli gli attori sociali di questa regione a rendersi conto dell’urgenza di unire i moderati delle due sponde del Mediterraneo. E non solo loro». 

Si è fatta l’ora di pranzo e raggiungo l’ufficio di Mohammad Sammak, l’unico musulmano ad aver partecipato a due Sinodi, quello sul Libano con Giovanni Paolo II e quello sul Medio Oriente con Benedetto XVI. «Devo riconoscere che dopo la visita del Papa in Egitto non abbiamo fatto abbastanza, noi libanesi abbiamo perso del tempo per gli accadimenti e le scadenze elettorali», afferma, «è sicuro che appena il nuovo governo nazionale sarà insediato verrà qui l’imam di al-Azhar. È già stato invitato, a livello governativo e presidenziale. Il suo sarà soprattutto un viaggio presso le istituzioni cristiane del Libano. Questo lo comprendono tutti, a cominciare da al-Azhar ovviamente». 

Ma intanto, secondo Sammak, «si deve procedere e il viaggio del cardinale Tauran in Arabia Saudita oltre che un punto d’arrivo deve essere considerato anche un punto di partenza. Non ho al riguardo notizie di prima mano, ma certamente è stato il punto d’arrivo di un lungo cammino cominciato con la visita del defunto re Abdullah d’Arabia Saudita prima in Vaticano, quando regalò a Benedetto XVI una spada analoga a quella che c’è sulla bandiera saudita in evidente segno di pace e poi a Madrid, per il grande incontro interconfessionale. Non tutti sanno che in quell’occasione il re invitò tutti i vertici religiosi del regno a seguirlo, ma neanche uno di loro si presentò. Lui era furioso e ordinò alla televisione di stato di trasmettere in diretta la cerimonia. E così i sauditi videro il loro re stringere le mani di vescovi, rabbini, leader religiosi buddhisti, induisti e ancora. Al suo rientro molti furono i destituiti, ma ora riprendere le strette di mano non basta».

«È ancora ammissibile il divieto di costruire una chiesa in Arabia Saudita? È bene ricordare che in un momento cruciale della sua vita il profeta Maometto si trovò a discutere con dei notabili cristiani, che a un certo punto gli chiesero di poter pregare. Lui gli disse di farlo lì, in moschea. Loro declinarono l’invito, dicendo che volevano pregare in chiesa. Allora Maometto disse ai musulmani di aiutarli a costruire una chiesa, e che quel credito non sarebbe stato fatto a loro, ma a Dio. Queste parole del profeta sono note e scritte, e hanno un enorme significato per ogni musulmano per quel che significano in termini di libertà di culto e di mutua accettazione».

Che un uomo della caratura di Mohammad Sammak non abbia notizie di prima mano su un incontro di tale portata mi ha indotto a chiederne al deputato Fares Souaid, che in Arabia Saudita pochi mesi fa ci è andato con il patriarca maronita Bechara Raï. «Anch’io non ne ho, ma credo che il punto sia un altro. Il Vaticano ovviamente non è uso discutere della sua diplomazia e delle sue iniziative, non rientra nella loro ordinarietà, è noto. Ma questo è un tempo straordinario. Una condivisione in spirito sinodale di quel che ha significato l’incontro potrebbe servire a restituire slancio a un Paese che ha bisogno di fiducia. Tutti sentiamo chiusure, arroccamenti e i politici seguono il trend. Solo le Chiese possono aiutare la nostra gente a non rassegnarsi». 

 

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