Quattro David di Donatello. E poi Ubu, Nastri d’Argento, il Gran Premio della Giuria a Venezia. In questi giorni addirittura una mostra dedicata ai quarant’anni della sua attività. Ricevere un premio, per Mario Martone non è certo una novità.

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Eppure, che questo Hystrio Twister ritirato lunedì a Milano per lo spettacolo «Il sindaco del rione Sanità» lo renda particolarmente orgoglioso, è lampante. E forse dipende anche dalla cifra piuttosto speciale di questo allestimento.

Martone, lo spettacolo che ha vinto questo premio ha una genesi insolita: ce la ricorda?

«Io non avevo mai affrontato Eduardo perché, essendo un regista ma non un attore, ero timoroso nell’affrontare tutte le sfumature con cui lui faceva vibrare i testi mentre li interpretava. A convincermi è stata proprio la dimensione inusuale in cui questo spettacolo si sarebbe realizzato: ovvero con un cast giovanissimo e un “Sindaco” – l’attore Francesco Di Leva - che, invece di settantacinque anni come nell’originale, ne aveva trentacinque appena. Un segno dei tempi che cambiano, dal momento che oggi la criminalità è sempre più giovane e si diventa boss molto prima che un tempo».

Altra particolarità, l’allestimento è stato messo in scena con gli attori del Nest: una formazione particolare.

«Assolutamente. Il Nest, ovvero Napoli Est Teatro ha casa a San Giovanni a Teduccio, uno dei quartieri più popolari e difficili di Napoli, dove un gruppo di giovani - attori, registi, scenografi e drammaturghi - ha ristrutturato una palestra e creato uno spazio per le arti là dove negli anni Ottanta c’era un morto di camorra al giorno e dove la criminalità organizzata ha visto alternarsi al comando negli ultimi anni diversi boss tra i venti e i trent’anni. Non solo: il Nest ha anche contribuito a togliere alcuni ragazzi dalla strada e avviarli al teatro. Per altro, questo è un periodo in cui mi trovo molto con i giovani: non a caso è molto giovane anche il cast del mio prossimo film, in uscita a ottobre».

Ci dà qualche anticipazione?

«Al momento ha un titolo provvisorio, “Capri batterie”, ma cambierà. È ambientato proprio nell’isola della grotta azzurra, nel 1914 e, in un certo senso, chiuderà la trilogia storica, che si era aperta con “Noi credevamo”, seguito poi da “Il giovane favoloso”. Però, malgrado il contesto, non si tratta di un film storico perché non racconta fatti realmente accaduti, ma una storia d’invenzione».

Nessun rimpianto nei confronti di Torino e della sua carica di direttore del Teatro Stabile?

«Ma io ho il cuore che batte a Torino! Ne ho moltissima nostalgia. Non per nulla qualche sera fa sono venuto al Gobetti a vedere gli ex allievi della scuola nel loro primo allestimento, “Roberto Zucco”. Penso però che dopo dieci anni un cambio della guardia sia cosa sana e inevitabile e sono molto contento del clima di sintonia in cui si è svolto questo passaggio di consegne. Cosa non scontata in tempi di esagerato attaccamento alla poltrona o, al contrario, di siluramenti velenosi. Mi fa piacere anche che, dopo di me, sia arrivato Valerio Binasco, che sta già dando positive indicazioni sulle sue linee-guida».

Nel suo lavoro di regista teatrale e cinematografico, lei ha sovente scelto di guardare al passato per indagare meglio il presente: penso a lavori come «La morte di Danton» e «Il giovane favoloso». Cosa pensa dell’attuale scenario italiano?

«Penso che siamo davanti a un periodo di grandi cambiamenti, il panorama mi pare disordinato, non ancora chiaro. Di una cosa sono certo: la chiusura rispetto ai migranti mi pare una scelta miope. Non lo dico per buonismo, che è un atteggiamento per me insopportabile. Facciamo conto che io non sia buono per nulla: riterrei ugualmente impoverito un Paese che si chiude perché si fa spaventare da paure assurde. L’immigrazione è il volano della crescita».

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