Più attenzione alla frontiera meridionale dell’Europa, cioè il Mediterraneo: perché è lì che si trova gran parte dei “fattori di instabilità, quali terrorismo islamico e flussi migratori incontrollati”. Lega e M5S convergono su questo – oltre all’impegno di restare nella Nato, ma con un’apertura alla Russia – alla voce “Esteri” del loro contratto di governo. Certamente il destino dell’Italia è legato a un Mediterraneo prospero e sicuro; e uno dei dossier più importanti è senza dubbio quello delle migrazioni. Ma si tratta davvero di flussi incontrollati come sostengono Lega e M5S?

In effetti per alcuni anni il numero di sbarchi irregolari dall’Africa è stato senza precedenti: da gennaio 2014 a giugno 2017 sono approdate in Italia dalle coste africane oltre 589mila persone (dati del Viminale). Per fare un paragone, sempre secondo il Viminale, dal 1997 al 2011 - l’anno della caduta di Gheddafi in Libia – gli arrivi dall’Africa erano stati in tutto circa 388mila. Poi, da luglio 2017, si è assistito a un drastico calo. Il risultato di una serie di trattative e accordi stretti con i governi di Libia, Niger e Sudan, coinvolgendo anche le tribù libiche del Fezzan e certe milizie della città costiera di Sabratha che da terra stanno impedendo le partenze.

L’argine fino ad oggi ha tenuto: da gennaio ai primi di giugno sono arrivati in Italia circa 13.700 migranti, il 77% in meno rispetto allo stesso periodo del 2017. C’è però un rovescio della medaglia. Stime precise è complicato farle, ma secondo diversi osservatori restano bloccati in Libia in condizioni spesso durissime 700mila migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Mentre a sud della Libia, in Niger, la guerra al business del trasporto di migranti ha paralizzato l’economia di intere comunità, lasciando senza lavoro centinaia, forse migliaia di persone, proprio quando nella regione dilaga la presenza di reti jihadiste in cerca di nuove reclute.

In ogni caso queste misure di contenimento non toccano le cause strutturali delle migrazioni. Che in Africa dipendono per lo più dalla fortissima spinta demografica. Nella regione subsahariana c’erano 500 milioni di persone nel 1990, oggi un miliardo. Il numero di migranti è cresciuto di pari passo: da 15 a 25 milioni. Significa che ha lasciato il proprio paese il 2,5% degli abitanti. Tra questi, secondo dati raccolti dal Pew Research Center, circa il 25% ha raggiunto una nazione europea. Nel 2050 la popolazione subsahariana raddoppierà ancora a quota 2 miliardi e 200 milioni, di cui più della metà saranno persone in età lavorativa (tra i 15 e i 64 anni).

Quanti saranno a partire? Difficile formulare previsioni. Ma “se la tendenza a lasciare il proprio paese restasse la stessa degli ultimi anni (il 2,5% della popolazione), il numero di migranti internazionali provenienti dall’Africa subsahariana crescerebbe da 25 a 54 milioni entro il 2050”, si legge in un recente documento pubblicato dall’ISPI, Istituto per gli studi di politica internazionale; in Europa, di questi quasi 30 milioni di migranti in più, ne arriverebbero circa 7,5 milioni, “se restasse immutata anche la propensione a raggiungere il Vecchio continente”.

Fare in modo che questo non accada, o comunque scoraggiare il più possibile le partenze, è diventata una delle priorità dell’Unione Europea. Oltre ai blocchi alle frontiere, la strategia prevede rimpatri e aiuti allo sviluppo. Rimpatriare però è spesso complicato. Ne sa qualcosa l’Italia che, tra il 2013 e il 2017, ha espulso solo il 20% degli irregolari a cui ha chiesto di lasciare il paese (la Germania il 78%). Non è solo una questione di inefficienza burocratica. Il problema principale è la nazionalità dei migranti. Spesso provengono da paesi, come quelli del Nord Africa e della regione subsahariana, con i quali l’Italia non ha accordi di rimpatrio. E anche quando ci sono è difficile farli rispettare per inaffidabilità di governi e autorità locali.

Gli aiuti allo sviluppo risentono di un’altra contraddizione. Indispensabili per sradicare la povertà. Molto meno se l’obiettivo è fermare le migrazioni. Anzi, se indirizzati verso paesi poveri, possono avere anche l’effetto opposto, cioè incoraggiare le partenze.

Questo perché al di sotto di una certa soglia di reddito, all’aumentare della ricchezza aumentano solo la propensione ad andarsene e le risorse per farlo. Sembra un paradosso, ma quasi tutti gli esperti sono d’accordo. L’impulso a migrare da un paese si riduce solo quando il reddito pro-capite degli abitanti supera un livello compreso tra 7mila e 9mila dollari l’anno (a parità di potere d’acquisto). In Africa subsahariana, dove nel 2016 il reddito medio era inferiore a 3500 dollari l’anno, gli incentivi a partire restano altissimi.

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