Tre perizie, sei faldoni dalla Svizzera e tanti immobili. Nel Tribunale vaticano si è svolta questa mattina la seconda udienza, dopo quella dello scorso 9 maggio, del processo per peculato e autoriciclaggio a carico dell’ex presidente dello Ior Angelo Caloia (78 anni) e del suo avvocato Gabriele Liuzzo (94 anni). Oltre due ore la durata della udienza, la maggior parte della quale è stata dedicata alla lettura di una lunga ordinanza del presidente Paolo Papanti-Pelletier e alla discussione per la determinazione dei quesiti operativi da porre ai periti.

Gli imputati erano entrambi assenti: Liuzzo per motivi legati all’età e quindi dichiarato allo “stato contumace”. L’ex vertice dell’Istituto e il suo legale sono accusati di sottrazione, distrazione e appropriazione indebita in relazione a dismissioni immobiliari tra il 2001 e il 2008, che hanno provocato un danno all’Istituto per le Opere di Religione di circa 57 milioni di euro. Una storia di compravendita di edifici tra Italia e Svizzera già in parte raccontata da un dossier agli atti, il Rapporto Promontory.

Per questi immobili sono stati richiesti gli indirizzi per l’esecuzione delle perizie sul loro valore all’epoca dei fatti e sulle relative operazioni finanziarie. In particolare l’avvocato di Liuzzo, Fabrizio Lemme, ha chiesto una valutazione «immobile per immobile» del valore di quelli venduti tenendo conto di tutte le loro «condizioni di stato e di diritto». Quindi «elementi imprescindibili» come il fatto che erano immobili occupati, che avevano contratto di locazione «ad longum tempus», che la loro redditività non era sufficiente a coprirne le spese di manutenzione, che le vendite avvenivano in blocco («interi edifici erano in vendita»), che tutti gli impianti, in particolare quelli elettrici, erano obsolescenti e non a norma («in alcuni si vedevano i fili lungo le pareti»). Su questo punto della valutazione singola si sono trovati tutti d’accordo, anche le due parti civili, lo Ior e la Sgir, società controllata dall’Istituto per le Opere di Religione, all’epoca proprietaria degli immobili.

Entrambe le parti insieme all’accusa hanno tuttavia rilevato che vari edifici erano stati ristrutturati «con gravose spese dell’Istituto», che «alcuni venivano venduti in blocco e altri no», ad esempio quelli in Viale Buozzi nella zona della Roma bene dei Parioli, e che «alcuni appartamenti nei blocchi erano affittati e altri no» (è stato citato un caso specifico in Viale Regina Margherita).

Per quanto riguarda le movimentazioni bancarie, sia allo Ior che in altri conti in Svizzera, «da cui si dimostra che almeno un immobile era stato comprato dall’avvocato Liuzzo e dalla famiglia», l’avvocato della Sgir Roberto Lipari ha chiesto l’acquisizione degli atti della documentazione di un processo in corso in Svizzera a carico di Liuzzo e del figlio Lamberto in modo da «chiarire meglio le movimentazioni bancarie tra le parti». Perché, come ha sottolineato il promotore di giustizia vaticano, Gian Piero Milano: «Tra Gabriele e Lamberto non c’è solo un rapporto di parentela. Il figlio operava per conto del padre, svolgendo attività tra Italia e Svizzera».

Più nel dettaglio gli atti del processo elvetico descriverebbero l’acquisizione di immobili da parte della famiglia Liuzzo tramite società in paradisi fiscali con le risorse provenienti dalla vendita di immobili Sgir. Un caso su tutti, un appartamento in via Ara di Conso a Milano dove avrebbero abitato sia Caloia che Lelio Scaletti (l’allora direttore generale dello Ior deceduto nel 2015, ndr). Sono sei i faldoni – le cui parti rilevanti sono due relazioni bancarie di circa 30 pagine ciascuno più gli allegati – di cui è stata richiesta l’acquisizione. Essa avverrà, ha spiegato il Tribunale vaticano alle parti civili, solo dopo «una selezione del materiale strettamente pertinente».

Dall’ordinanza letta oggi da Papanti-Pelletier, con cui il presidente ha risposto alle richieste sull’ammissione delle prove formulate nella precedente udienza del 9 maggio e con le successive integrazioni, è emerso infatti che tutte le parti hanno chiesto prove tecniche e consulenze con assoluta genericità e «manifesta sovrabbondanza». In altre parole, per i giudici ci sarebbero troppi testimoni richiesti (circa 60 quelli presentati dalla difesa di Caloia), troppi documenti da vagliare o da rintracciare o ricostruire. Papanti-Pelletier nel rispetto del diritto alla difesa e per limitare il potere selettivo del Tribunale, ha invitato tutti a farsi carico «della allegazione delle prove», a verificare attentamente quanto richiesto, anche in merito ai testimoni.

È stato poi deciso che i periti del Tribunale della Santa Sede saranno tre: uno per la traduzione della documentazione agli atti nella lingua italiana inglese (il Rapporto Promontory), uno per la stima degli immobili, uno per la ricostruzione delle operazioni finanziarie. Alle parti è stato concesso comunque di nominare dei consulenti. In ogni caso, ha precisato il presidente della Corte vaticana, i titolari saranno esclusivamente i periti d’ufficio nominati dal Tribunale: Dorotea Nicosia per la traduzione in italiano, l’architetto Alessandra Albani per la stima degli immobili venduti, Luigi Gaspari per la ricostruzione delle operazioni finanziarie.

Dopo aver disposto che la eventuale presentazione delle ulteriori prove documentali dovrà avvenire in Cancelleria entro il prossimo 9 luglio, e che eventuali eccezioni potranno essere depositate entro il 13 luglio alle ore 12, i giudici vaticani hanno concluso la seconda udienza senza tuttavia indicare una prossima data per il processo.

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