«Gli Stati Uniti hanno scatenato la più grande guerra commerciale della storia». Così Pechino ha commentato le tariffe del 25% imposte da Washington sull’importazione di prodotti cinesi per 34 miliardi di dollari, a cui la Repubblica popolare ha subito risposto con una rappresaglia analoga. Il presidente Trump minaccia ora un’escalation da 500 miliardi di dollari, ma così mette a rischio la forte economia americana, che proprio ieri ha celebrato risultati molto positivi per l’occupazione.

Gli Usa hanno un deficit commerciale con la Cina di 375 miliardi di dollari, che il capo della Casa Bianca vuole ridurre di almeno 200 miliardi. Le ragioni sono tre: il presidente ritiene che lo squilibrio penalizza l’economia americana; danneggia i lavoratori di stati chiave per la sua rielezione come Pennsylvania, Ohio e Michigan; e favorisce il piano di Pechino per diventare il leader mondiale nella produzione dell’alta tecnologia entro il 2025, minacciando così supremazia e sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nei mesi scorsi l’Amministrazione ha negoziato una soluzione, e la Repubblica popolare ha offerto di comprare più prodotti americani.

La proposta è stata giudicata insufficiente, e quindi Trump ha imposto la scadenza del 6 luglio per trovare una soluzione, altrimenti avrebbe imposto i dazi. Il termine è passato alla mezzanotte di giovedì, e quindi sono entrate in vigore tariffe del 25% su beni per 34 miliardi di dollari. Per ora colpiscono soprattutto apparecchiature industriali intermedie, per non far sentire il peso ai consumatori americani. Pechino però ha risposto con dazi analoghi su prodotti come soia, carne di maiale, auto, che invece si avvertiranno proprio negli stati del Midwest di cui il presidente ha bisogno per vincere le elezioni.

Trump ha minacciato quindi di avviare un’escalation, imponendo tariffe su tutti i prodotti da 500 miliardi di dollari che la Cina vende negli Stati Uniti, sicuro di vincere perché le esportazioni della Repubblica popolare sono oltre il doppio di quelle americane. Xi però è pronto a rispondere con misure asimmetriche, come il boicottaggio delle attività delle aziende Usa nel suo mercato, o in ultima istanza del debito di Washington.

La crisi sta diventando globale, perché nel frattempo Trump ha imposto dazi anche contro i tradizionali alleati europei. Ora minaccia di colpire le esportazioni di auto dalla Ue, puntando a penalizzare soprattutto la Germania, ma Bruxelles è pronta a reagire con tariffe su prodotti Usa per 300 miliardi di dollari. La commissaria al Commercio dell’Unione, Cecilia Malmstroem, ha commentato così: «L’escalation dei dazi tra Usa e Cina è una sviluppo preoccupante. Le guerre commerciali sono cattive e non facili da vincere». Anche la Russia ha deciso di rispondere alle misure di Washington su acciaio e alluminio, varando tariffe tra il 25 e il 40% su alcune importazioni dall’America: «Abbiamo adottato, e adotteremo provvedimenti per difendere i nostri interessi», ha detto il portavoce del presidente Putin, Peskov.

Il rischio è che la Ue volti le spalle agli Usa. Il presidente della Commissione Juncker ha annunciato che «martedì firmerò col premier giapponese l’intesa commerciale onnicomprensiva più ampia che l’Unione abbia mai concluso». Il 16 luglio poi è in programma il vertice sino-europeo a Shanghai, e il presidente Xi vorrebbe usare questa occasione per stringere un’alleanza con Bruxelles contro Washington.

L’amministrazione è divisa sulle prospettive della guerra commerciale. Il ministro del Tesoro Mnuchin spera di usarla solo per convincere Pechino a riequilibrare il deficit, senza danneggiare la buona crescita economica, che a giugno ha creato 213.000 posti di lavoro negli Usa. Il rappresentante per i commerci Lighthizer però la vede come una misura protezionistica di lungo termine, e sullo sfondo torna minacciosamente alla mente l’avvertimento del filosofo Frédéric Bastiat: «Dove non passano le merci, passeranno gli eserciti».

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