Non ci sono statistiche complete, eppure si tratta di un fenomeno in crescita in molti Paesi occidentali: il processo di secolarizzazione ha come conseguenza anche quello della dismissione degli edifici di culto, cioè delle chiese. Paesi come Francia, Belgio, Olanda, Svizzera, Stati Uniti e Canada sono fra quelli più colpiti, ma anche in Italia gli effetti cominciano a farsi sentire anche se in misura minore. Il problema è l’uso che si fa del patrimonio dismesso, il rischio infatti, è che la cessione del bene porti a trasformazioni nelle quali si perda del tutto il senso originario dell’edificio: ex chiese diventano discoteche, night club (come è accaduto per una celebre chiesa di Praga),garage, gelaterie, moschee, negozi, bar, ristoranti, palestre, centri estetici e così via.

Mutamenti radicali che a volte feriscono le stesse comunità di cittadini o di fedeli, che di certo rischiano di cancellare per sempre il senso del sacro insito nella storia e nell’architettura di quegli edifici. Per tali ragioni il Pontificio Consiglio per la cultura, la Pontificia Università Gregoriana e la Cei, hanno promosso un convegno internazionale in programma il prossimo novembre presso l’Ateneo dei gesuiti, dal titolo “Dio non abita più qui?” dedicato al tema. Ma soprattutto, nell’occasione, saranno presentate delle linee guida sulla dismissione e il riuso del patrimonio ecclesiastico il cui testo sarà discusso e approvato nelle prossime settimane dai delegati delle Conferenze episcopali d’Europa, America settentrionale e Oceania, che pure prenderanno parte al convegno.

Obiettivo del documento, tuttavia, non sarà quello di suggerire «se o quando dismettere o vendere una chiesa – la scelta ultima è dei vescovi e talvolta è una scelta obbligata – quanto dimostrare la necessità di una programmazione a lungo termine coinvolgente le comunità e la ricerca di un’intesa con le autorità civili», hanno spiegato i promotori dell’iniziativa durante la presentazione dell’evento avvenuta nella sede del Pontificio Consiglio per la cultura.

Il fenomeno, per quel che riguarda il nostro Paese, va valutato «intorno alle centinaia di chiese dismesse», ha sottolineato don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per i beni culturali ecclesiastici e del servizio nazionale per l‘edilizia di culto della Cei. «In molti casi – dice – la chiesa, anche quando poco frequentata, rappresenta un legame forte con la memoria dei luoghi, con la storia di quella comunità, e quelle trasformazioni commerciali in cui si perde completamente la memoria di tutto questo, spesso suscitano la protesta delle comunità locali». Tremila sono state le chiese danneggiate dagli ultimi due terremoti che hanno colpito in particolare il centro Italia: c’è un grande impegno - anche da parte dello Stato - a recuperarle, «perché rappresentano un centro, un punto di ritrovo, per la gente, un presidio, la possibilità di ricostruire una comunità e di non perdere un’identità».

In Italia ci sono circa 100mila chiese, quelle delle parrocchie sono però 65mila, le altre sono di proprietà di una pluralità di soggetti diversi: i privati innanzitutto, poi il demanio, i comuni, le regioni, gli ordini e le congregazioni religiose (di queste non si conosce il numero esatto, non sono state censite), le confraternite. Il Fec, il Fondo Edifici di culto preso il Ministero degli Interni, è proprietario di poco più di 820 chiese, fra queste alcune delle più celebri: a Firenze, la basilica di Santa Croce, poi S. Maria Novella e S. Marco; a Roma, S. Maria in Ara Coeli, S. Maria del Popolo, S. Maria della Vittoria, S. Ignazio, S. Maria Nova o S. Francesca Romana, S. Maria Sopra Minerva, S. Andrea della Valle, la Basilica dei Ss. Giovanni e Paolo al Celio. Gli edifici di culto del Fec, derivano dalle espropriazioni compiute dallo Stato Italiano alla fine dell’800.

La gestione delle chiese dismesse - in particolare se di valore artistico – è regolata anche dagli accordi concordatari, tuttavia a volte a favorire la cessione dell’edificio è il suo valore commerciale, per la zona della città in cui si trova, per i risparmi di gestione che ne derivano per parrocchie in non floride condizioni economiche o per istituti di sostentamento per il clero che si fanno carico di edifici che – in questo caso - non producono reddito. È però un dato di fatto che cedendo a un privato una chiesa diventa difficile poi per il vescovo locale impedire successive trasformazioni dell’ex edifico di culto magari in una discoteca o in un centro commerciale; differente è il caso del comodato d’uso, magari realizzato d’intesa con un’istituzione pubblica. Insomma, il quadro normativo, sia pure differente da Paese a Paese, esiste: in Canada vengono tutelate anche le cappelle più semplici e isolate; in Francia le chiese sono di proprietà dello Stato; in Olanda e in Belgio, invece, per le chiese vendute il problema della “destinazione d’uso” è particolarmente sentito.

Nella preparazione del convegno, ha detto il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Dicastero per la cultura, «abbiamo registrato un interesse straordinario da parte di episcopati di diversi Paesi». Ravasi ha spiegato che il fenomeno ha diverse trasversalità: «La prima è storica, poiché il problema delle requisizioni delle proprietà della Chiesa si è sempre verificato, basti pensare a Napoleone, e poi al Risorgimento. C’è poi una trasversalità geografica perché il problema riguarda Paesi molto diversi fra loro che vanno dall’Europa, all’America, all’Oceania. Infine emerge una trasversalità socio-culturale perché il fenomeno delle dismissioni è uno degli specchi del declino della pratica religiosa e del clero, del progredire della secolarizzazione».

E in effetti quest’ultimo aspetto risulta determinante nella decisione, da parte di diverse autorità ecclesiastiche, di procedere alla vendita o alla dismissione di una chiesa (da qui deriva anche l’eccessivo peso economico “gestionale” della chiesa). Da parte sua, monsignor Nunzio Galantino, da poco nominato alla guida dell’Apsa (Amministrazione patrimonio sede apostolica) ma presente all’incontro ancora in qualità di segretario generale della Cei, ha rilevato come neanche l’opzione di far pagare il biglietto ai turisti e ai visitatori di certi luoghi di culto particolarmente significativi sotto il profilo culturale e artistico, si sia rivelata una soluzione fruttuosa dal punto di vista economico e dell’opinione pubblica. Spesso, infatti, i ricavi ottenuti quando si è provato a seguire questa strada, erano tutto sommato scarsi, mentre l’ingresso a pagamento, sia pure regolamentato, nelle chiese, ha suscitato sempre proteste e critiche.

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