«Formare gli studenti, non formattarli». Con questa formula efficace padre Nuno Da Silva Gonçalves, rettore della Pontificia Università Gregoriana dal 2016, riassume l’obiettivo e la sfida didattica del suo mandato. «Qui - spiega - si viene per acquisire strumenti che devono servire per la vita e non per superare gli esami, per sviluppare pensiero critico e autonomo, attitudine al discernimento nella continua ricerca della verità». Percorso formativo che non è solo accademico ma anche spirituale e umano: «Dobbiamo accompagnare lo studente in un processo di crescita che gli consenta di continuare a formarsi in maniera autonoma per tutta la vita», aggiunge il rettore.

Una perfetta sintesi della pedagogia Ignaziana, il fondamento della Università Gregoriana, eccellenza tra le Università Pontificie, modello educativo che si tramanda da secoli, come un codice genetico impresso dal fondatore della Compagnia di Gesù, Sant’Ignazio di Loyola, che diede vita al Collegio Romano nel 1551. Opera proseguita e affidata ai Gesuiti da Papa Gregorio XIII, da cui l’Università prende il nome. Da allora, nei secoli, la missione di servizio alla Chiesa assieme al modello educativo sono l’identità forte della Gregoriana. Un patrimonio intellettuale ancora attuale che è alla base della moderna didattica che intende l’educazione come processo di elaborazione permanente. E che coincide con le indicazioni contenute nella Veritatis Gaudium (appunto, la “Gioia della Verità”), la rivoluzionaria Costituzione Apostolica di Papa Francescoche dal prossimo anno entrerà a pieno titolo nelle Università Pontificie e negli Istituti di studi superiori ecclesiastici con lo scopo di rispondere «all’esigenza prioritaria, oggi all’ordine del giorno - come si legge nel Proemio - che tutto il Popolo di Dio si prepari ad intraprendere una nuova tappa dell’evangelizzazione».

Un percorso di grande rinnovamento in cui tutte le Accademie sono chiamate al ruolo fondamentale di provvidenziale laboratorio culturale, fucina di nuovo pensiero in un mondo che benché laicizzato, cerca drammaticamente la luce del sacro. E tra i laboratori culturali, la Gregoriana ha sicuramente un posto di primo piano che le viene giustamente riconosciuto a livello planetario, aldilà dei confini tra cultura laica e cultura religiosa. «Siamo incoraggiati a proseguire nella strada che abbiamo intrapreso», dichiara il rettore Gonçalves che con soddisfazione fa il bilancio dell’anno accademico da poco concluso. A partire dal lavoro interdisciplinare, tanto raccomandato dalla nuova Costituzione. Così i cicli di conferenze, le letture che nella Università dei Gesuiti hanno mobilitato tutte le Facoltà, dai teologi ai sociologi, per presentare i due documenti di approfondimento, Evangelii Gaudium e Amoris laetitia, e per integrarli nell’insegnamento.

Bilancio positivo anche sui numeri: 2700 iscritti, concentrati soprattutto tra i nuovi immatricolati e nei primi anni di corso, che indicano una buona proiezione per il futuro e che fanno dire al rettore: «È stato l’anno migliore tra gli ultimi dieci». Studenti provenienti da 123 Paesi, numeri che sono lo specchio, come è d’altronde in tutti gli Atenei pontifici, del progressivo ridursi delle vocazioni in Europa negli ultimi decenni, da dove ora arriva meno del 48% degli studenti. Il resto da Asia, America, Africa e Oceania, che rende la Gregoriana crocevia delle periferie del mondo ( se di periferie si può parlare), opportunità straordinaria di scambio di esperienze e arricchimento reciproco che padre Gonçalves raccomanda all’inizio di ogni anno accademico: «Ricordo ai nostri studenti di approfittare non solo dell’ incontro tra mondi diversi, ma anche della ricchezza ecclesiale e culturale che questa città e questa Chiesa mettono loro a disposizione». Nonostante l’ostacolo forte che è quello della lingua. Gli insegnamenti sono infatti per norma in italiano, gli esami, al contrario, possono svolgersi in altra lingua scelta dallo studente. E spesso poco efficaci si rivelano i corsi obbligatori di italiano prima dell’inizio delle lezioni.

Al contrario ottimi sembrano i frutti dell’attività di tutoraggio che i dottorandi mettono a disposizione delle matricole. Gli iscritti si concentrano in maggioranza (1200) a Teologia, seguono quelli di Diritto Canonico, Filosofia, Storia e Beni culturali, e poi Missiologia e Scienze sociali. La facoltà di Storia e Beni culturali è una specificità della Gregoriana, niente a che vedere con la formazione di amministratori ed economi, «qui si preparano medici di base», come il rettore definisce il personale che dovrà avere la sensibilità e gli strumenti per individuare quando uno degli innumerevoli, preziosi pezzi del patrimonio ecclesiastico richiede l’intervento di restauratori.

Nata 25 anni fa, su richiesta della Santa Sede per studiare e tutelare il Patrimonio storico ed artistico della tradizione cristiana, la Facoltà si è fusa nel 2005 con quella di Storia ecclesiastica. Gli studi vanno dalla Storia dell’arte cristiana alla teoria della conservazione e restauro, dalla gestione dei beni culturali, al diritto, dall’archivistica alla biblioteconomia. A frequentarla sono soprattutto studenti italiani ed europei. Anche se la gestione degli archivi è importante per tutti, tanto per gli studenti americani e asiatici quanto per gli africani «che certamente - dice il rettore - hanno altre urgenze, ma bisogna lasciare qualcosa per le future generazioni, e gli archivi sono la continuità della Chiesa». E che siano destinati a fare gli archivisti o i missionari in un Paese scristianizzato, o altrove, in Africa come a Roma, la sostanza non cambia: sarà sempre come vivere in missione. Questa è la responsabilità, il compito difficile che grava sui docenti e sul loro insegnamento, su metodi e contenuti perché siano densi ed efficaci e trasmettano agli studenti quel ripensamento radicale espresso dal Concilio Vaticano II in cui missione e Chiesa coincidono.

Da qui «una Chiesa in uscita», come indica Papa Francesco, «una Chiesa ospedale da campo», perché non c’è Chiesa che non sia missionaria pronta a dare risposte alle angosce e alle domande di uomini e donne, «che sono le domande di sempre ma che oggi richiedono linguaggio diverso, diretto e comprensibile, anche nell’ esposizione di un’omelia», sottolinea Nuno Da Silva Gonçalves. Domande che mobilitano anche i teologi, un richiamo che arriva direttamente da Papa Francesco quando sollecita un collegamento più stretto tra riflessione teologica e pratica pastorale. Quando chiede che i teologi non restino nei loro uffici ma siano in contatto con il mondo, «che facciano teologia in ginocchio», altrimenti a che cosa serve la teologia se non è al servizio della vita spirituale?

Questo, spiega Gonçalves, è il compito che il Papa affida alla Gregoriana: preparare religiosi e laici alla missione che riceveranno nelle loro diocesi, nelle loro frontiere. Tema urgente per il Pontefice quello delle frontiere e che trova voce nell’attività di tre Centri: il Centro Studi interreligiosi sulle relazioni tra Cristianesimo e Islam e le altre religioni e culture dell’Asia; il Centro Studi Giudaici per la comprensione dell’ebraismo, e il Centro per la tutela dei minori.

Ma non è forse frontiera anche Roma, con le sue contraddizioni, le sue emergenze dal centro alle periferie? Le riflessioni e il lavoro delle Università Pontificie raggiungono territori così silenziosamente lontani? O non c’è scambio tra questi due mondi distanti e sconosciuti? «Dovrebbe venire qui nel tardo pomeriggio – replica il rettore – quando un pezzo del mondo di fuori entra nella Gregoriana, per ascoltare le conferenze a ingresso libero. Oppure il sabato mattina per i seminari sull’impegno etico, 120 giovani che non mancano un appuntamento. Così stiamo vicini alla città».

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