Un’impresa editoriale che abbraccia quelle che sono innanzitutto dichiarazioni di fede - dove il verso è sempre preferito alla prosa - specchio di una rivoluzione spirituale e poetica. Quasi duecento testi di poeti cristiani latini dei primi secoli. E settanta poeti italiani contemporanei che li hanno tradotti. Orazioni, epigrafi sepolcrali, ma soprattutto cantici ed inni, datati fra il II e il VI secolo dell’era cristiana, che grazie al linguaggio poetico – si tratti del filone omiletico, innodico, liturgico, teologico (e persino degli epitaffi, che forse meriterebbero un capitolo separato), custodiscono quasi intatte le loro voci. A curare il volume lo scrittore e poeta Vincenzo Guarracino, che, dopo aver già sperimentato con successo questa formula editoriale (le antologie dei lirici greci e dei poeti latini per Bompiani apparse nel ‘93), ancora una volta ha scelto un metodo polifonico, prima selezionando gli autori, poi stilando le introduzioni e le note ai testi, infine coordinando il lavoro di tutti i traduttori ai quali ha chiesto una fedeltà creativa nella resa in versi per i lettori di oggi.

Eccoci dunque davanti a nomi celebri come Tertulliano, Lattanzio, Damaso, Ilario di Poitiers, Ambrogio, Prudenzio, Paolino da Nola, Agostino, Claudiano, Boezio, Gregorio Magno, Isidoro di Siviglia. Ma anche meno noti: Giovenco, Auchenio, Paolino di Biterrae, Prospero d’Aquitania, Sedulio, Sisebuto e via dicendo. Poeti, sì, e, in molti casi soprattutto uomini che, alla santità della vita, hanno unito il canto della bellezza della fede. Senza dimenticare gli autori anonimi di testi arrivati a noi dall’antichità per i quali si può tutt’al più tentare - con fatica - qualche attribuzione, prendendo atto pure di qualche sorpresa: si pensi al necrologio in onore di un auriga tradotto da Tiberio Crivellaro («Qui giace l’auriga Eutimio, che visse anni (…) più / un mese e dieci giorni, inumato il quinto delle Idi di ottobre / durante il diciassettesimo consolato / di Teodosio Augusto e Festo»). Ma come, i cristiani non disprezzavano gare e combattimenti nelle arene?.

In ogni caso non poche le composizioni che leggiamo ancora durante la messa, ad esempio il Gloria o il Magnificat. Come pure i testi ancorati al ciclo liturgico, ad esempio il Pange, lingua, gloriosi proelium certaminis di Venanzio Fortunato , tradotto dal poeta Paolo Ruffilli (che inizia con i versi «Canta, o lingua, la lotta della gloriosa battaglia / e racconta del nobile trionfo sul trofeo della croce, / di come, immolato, il redentore del mondo abbia vinto…. ») o il De ligno crucis carme allegorico attribuito a Tascio Cecilio Cipriano affidato alla versione di Mario Santagostini (che inizia con queste righe «C’è uno spazio nel centro di tutto il mondo: /Gòlgota lo chiamano i Giudei nel loro idioma. /Qui – io ricordo – un tronco spezzato alla radice /piantato in terra sterile fruttificò»).

Già. E i nomi dei poeti traduttori? Qui c’è spazio solo per citarne alcuni: curatore compreso, ecco Roberto Sanesi, Paolo Ruffilli, Roberto Mussapi, Michele Brancale, Bianca Garavelli, Marco Beck, Mauro Ferrari, Giorgio Luzzi, Matteo Coco, Giuliano Ladolfi, Adele Desideri, Luigi Fontanella, Antonio e Daniele Donadio, Stefano Lanuzza, Pasquale Maffeo, Giancarlo Pontiggia, Paride Mercurio, Mario Santagostini, Raffaele Urraro, Anna Ventura. Nomi che non hanno bisogno di molte presentazioni (anche se la mancanza dei testi a fronte, pur trattandosi di traduzioni d’autore, è abbastanza vistosa).

«Il libro evidenzia una disputa tra la luce rappresentata da Gesù e le ombre, tra i quali si colloca il percorso degli esseri umani che possono trovare il senso alla loro vita», avverte, aprendo queste pagine, Guarracino. E infatti si tratta di testi capaci di scuotere- interrogandoli- tanto i lettori credenti, quanto gli agnostici «purché sorretti dalla curiosità della ricerca di fronte al mistero del vivere e del morire». Testi che, benché imbevuti delle filosofie o delle credenze assorbite nelle diverse epoche lungo lo scorrere del tempo, e dove non sempre è facile distinguere fra espedienti retorici o conversioni autentiche, hanno in ogni caso testimoniato quella sensibilità nuova diffusasi insieme al Cristianesimo parallelamente alla decadenza dei culti pagani. Una sensibilità che si ritrova innanzitutto nell’Africa romanizzata, culla del cristianesimo latino, e da lì si dilata grazie alla sua forza spirituale. E’ quello che si avverte leggendo parecchi carmi e inni, spesso fortemente segnati da una cifra identitaria, tutta nel segno del sacro, ma che la vastità dei filoni e dei testi individuati del curatore ha messo al riparo da troppe ripetizioni, consentendo anzi, felici scoperte o riscoperte.

Come la prima traduzione della Fenice di Lucio Cecilio Lattanzio (definito da san Girolamo («fiume di eloquenza ciceroniana»), che si deve a Roberto Sanesi a confronto con questo sull’allegoria della caduta e della redenzione dell’uomo (che finisce con i versi «Prole a se stessa, padre e suo stesso erede, nutrice /di sé e sempre nutrita di se stessa, identica /a sé, la stessa e non la stessa, la Fenice / giunge alla vita eterna col bene della morte»).

O la lirica Praefatio, dagli Evangeliorum Libri, di Giovenco, tradotta da Pasquale Maffeo, autore pure di altri versi di questo “riassunto poetico” del Vangelo («Di Cristo infatti io narrerò la vita che genera vita,/ al popolo dono divino del dubbio neppure sfiorato. /Né il rogo universale è da temere distrugga /quest’opera: semmai, ecco, essa si farà grazia / quando in nube di fuoco scenderà fulgente / giudice, gemma del Padre, dall’alto trono il Cristo. /Dunque cantiamo! E nel canto m’ispiri salvifico /lo Spirito, la mente mi asperga di limpide onde /del dolce Giordano, perché di Cristo degnamente io dica»).

Sino al piccolo gioiello del Clarus Ubique Deus attribuito nei codici di Isidoro a Sisebuto, tradotto da Antonio e Daniele Donadio, preceduto da una citazione di Draconzio cui il re visigoto aggiunge suoi versi indirizzati al figlio incoraggiandone la manifestata vocazione monastica («Dio che in ogni parte risplende ne è Lui l’autore senza macchia /Mio Teudila, infinitamente caro, abbi sempre cura di te, /ama con gratitudine il nome di colui che t’ama. /Possa a te concederlo, benevolmente, lo stesso Sandrimero /che t’incoraggiò a consentire al voto divino. /Che il vero Dio ti conservi nella vera grazia, /affinché con i tuoi servigi possa venerarne il nome. / Ti sia benevolo, ovunque, il Leone della tribù di Giuda. / Sia con te Cristo, luce della vita, universalmente pio»). Oppure l’epitaffio del console Auchenio Basso per la tomba di Monica, la madre di Agostino, tradotto dallo stesso Guarracino («Qui depose le sue ceneri la tua castissima madre, /Agostino, riflesso del tuo stesso splendore. /Tu, che, Vescovo, assicuri della pace i sacri diritti /a te i popoli affidati col tuo esempio istruisci. /Gloria maggiore è quella che entrambi incorona:/ più che per le opere è per la virtù di tale figlio»). E, ancora, per citare almeno il lavoro di una poetessa, l’inno da Elpidia, moglie di Severino Boezio, agli Apostoli Pietro e Paolo, invocati per il loro potere di «aperire terris coelum, apertum claudere»aprire il cielo/ a chi è in terra e di chiuderlo ancora», Pietro) e di «mores instruire ( «regolare le azioni umane» con la sua sapienza, Paolo).

Ma è nel segno di un Cristianesimo proveniente da aree marginali e periferiche, che s’inscrivono questi primi scritti. Testi, che «assieme ai numerosi Atti e Passioni dei martiri in prosa (tra i più importanti, gli Acta Martyrum Scillitanorum e la Passio Perpetuae et Felicitatis), destinate queste ultime a svilupparsi poi in direzione di biografie di monaci e santi, costituiscono le testimonianze di un sentimento poetico e di un fenomeno di fede palpitante di fermenti, che, a partire dalle classi più umili, è destinato ad estendersi anche al mondo dei dotti», avverte Guarracino. Convintissimo, del resto, che il punto di partenza, il terreno per così dire di cultura « è naturalmente, come è logico e comprensibile, la Bibbia» dalla fine del I secolo in poi sempre più presente nel mondo che parla latino «sotto forma di traduzioni (note come Vetus Latina e Itala), precedenti a quella fondamentale – la cosiddetta Vulgata di san Gerolamo (347 c.–420), che si propongono come fonte e fulcro della predicazione e dell’edificazione morale e dottrinaria dei Cristiani, prima di riversarsi in un’espressione equamente divisa tra liturgia, predicazione e teologia».

Insieme alla Bibbia, alla valorizzazione liturgica, anche le conseguenze della progressiva elaborazione dottrinale, dei successivi registri omiletici, delle forme apologetiche, accompagnano questa poesia con le immagini evocate dai suoi versi anelanti una comunione con il Divino. Inoltre - come è stato già osservato da acuti commentatori specialisti - il volume ci consente di assistere ai primi esempi di versificazione ritmica, matrice della poesia europea moderna. Si leggano lo Psalmus Responsorius (IV secolo), scoperto nel 1965 in un papiro ora a Barcellona: nelle sue dodici strofe , qui tradotte da Lorenzo Morandotti, scorrono i fatti salienti della vita di Maria: dalla sua nascita fino al miracolo del Figlio alle nozze di Cana. Oppure lo Psalmus contra partem Donati di Agostino, un componimento di propaganda contro il donatismo, un movimento scismatico rigorista e millenarista sviluppatosi nel nord Africa, così chiamato da chi lo capeggiava, ovvero il vescovo Donato di Cartagine. Qui è nella traduzione “rap” di Carlo Alessandro Landini. All’inizio si legge: «Voialtri che di pace vi beate, la nuda verità or giudicate. /Cosa rara è ascoltare una contesa che ai contendenti/non rechi offesa... » e finisce così: «Risolta è la questione finalmente. Perché non state in pace, brava gente?».

“Poeti cristiani latini dei primi secoli”, a cura di Vincenzo Guarracino, Mimep-Docete, pag. 360, euro 15.

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