L’attesa per le prime elezioni libere della sua storia era tantissima. L’affluenza attestata attorno al 70% degli aventi diritto e le lunghe code, i canti e i balli, di cittadini in ogni angolo del Paese, facevano presagire una vera occasione di festa per tutto lo Zimbabwe. Ma il risveglio dei circa 17 milioni di abitanti il giorno dopo l’appuntamento elettorale, è stato traumatico. All’annuncio del risultato che proclamava vincitore il presidente ad interim uscente Emmerson Mnangagwa, infatti, leader dello Zanu-Pf – stesso partito del dittatore Robert Mugabe alla guida del Paese per 38 anni ed esautorato dallo stesso Mnangagwa lo scorso novembre -, manifestanti dei gruppi politici di opposizione, tra i quali, in maggioranza, i simpatizzanti del Movimento per il cambio democratico guidato da Nelson Chamisa, sono scesi in piazza per protestare.

Le barricate e i roghi nelle strade hanno allertato prima le forze di polizia e successivamente l’esercito che ha reagito molto duramente e trasformato Harare rapidamente in un teatro di scontri molto violenti. Tra il 31 luglio e il 2 agosto i soldati hanno utilizzato gas lacrimogeni, idranti ma anche munizioni e causato la morte di almeno sei persone e il ferimento di una quindicina.

Mnangagwa, dopo aver dichiarato l’intenzione di aprire un’inchiesta indipendente sulle morti e gli scontri, ha invitato la popolazione alla calma e chiesto a tutti di «desistere da dichiarazioni e affermazioni provocatorie» ma la sua vittoria, macchiata dalle accuse di brogli e di poca trasparenza, è già messa a dura prova. La comunità internazionale, infatti, ha già manifestato più di un disagio: nella giornata di giovedì 2 agosto sono arrivate le prime forti critiche da vari osservatori esterni tra le quali spicca quella dell’ex presidente del Ghana John Mahama che, a nome del Commonwealth, ha denunciato «l’eccessivo uso della forza contro civili disarmati».

Nella mattina di venerdì 3 agosto, quando finalmente erano disponibili i risultati definitivi (44.3% Chamisa mentre Mnangagwa, con il 50.8%, supera la soglia del ballottaggio), i sostenitori del neo presidente sono scesi in piazza a festeggiare proprio mentre il leader dell’opposizione tuonava: «La Commissione elettorale ha scandalosamente rilasciato dati ancora non verificati e ha negato accesso al nostro rappresentante deputato ad accertarsi di persona della veridicità dei risultati. Il livello di opacità, mancanza di verità e decadimento morale è incredibile». Il giorno prima, invece, dall’ospedale di Harare in cui sono stati ricoverati i feriti, aveva condannato la Commissione elettorale per il ritardo nel pubblicare i risultati, e si era detto certo che alla fine sarebbe stato lui a ricoprire il ruolo di presidente.

Le Chiese hanno seguito con grande passione e vicinanza il cammino di democratizzazione dello Zimbabwe. L’Inter-Regional Meeting dei vescovi dell’Africa del Sud, la Conferenza episcopale zimbabwana, lo Zimbabwe Council of Churches (Zcc), il World Council of Churches (Wcc) e vari altri organismi ecclesiali, hanno preso parte direttamente, nel corso della lunga campagna elettorale, al processo di pacificazione e mediazione tra i cittadini esortando tutti alla responsabilità e alla moderazione.

Raggiunto al telefono da Vatican Insider, Kenneth Mtata, segretario generale dello Zimbabwe Council of Churches, l’organismo delle Chiese a cui è associata anche la Chiesa Cattolica, ha fornito le sue impressioni sul momento politico e sociale dello Zimbabwe, oltre ad aggiornamenti sulla situazione attuale.

«Al momento c’è calma ad Harare e nel resto del Paese ma la tensione è palpabile perché, come si può immaginare, l’annuncio definitivo la scorsa notte della vittoria di Mnangagwa, ha scatenato nuove proteste tra l’opposizione sia per ciò che riguarda il processo di elaborazione dei dati che per i risultati. L’atmosfera è quindi davvero tesa e noi ci siamo subito mobilitati perché si calmassero i toni».

Cosa avete proposto?

«Questa mattina (venerdì 3 agosto) ci siamo proposti come mediatori per sollecitare un incontro diretto tra i leader perché si parlino e facciano capire al Paese che un dialogo è in corso. Ieri, invece, abbiamo chiesto di indire un tavolo, il più lungo e inclusivo possibile, dove si possano sedere rappresentanti di tutti i cittadini e si concluda pacificamente il processo elettorale al momento molto contestato. Ma per fare ciò, bisogna favorire una profonda coesione, dobbiamo sradicare tutti i motivi di rabbia, insoddisfazione e frustrazione che hanno condotto tanta gente a manifestare in modo violento».

Tutto il mondo guardava con speranza a questa tornata elettorale, come si è giunti a questa situazione?

«Nelle ultime settimane abbiamo vissuto un periodo meraviglioso. Abbiamo sentito una grande emozione per le prime elezioni libere del nostro amato Paese e speravamo davvero di viverle come una festa. Da mesi tutte le Chiese si sono prodigate per creare quell’atmosfera giusta di riconciliazione nazionale. Da martedì scorso, invece, siamo ripiombati nel buio degli scontri. Dobbiamo imparare una prima lezione di democrazia: le elezioni da sole non bastano, non sono la soluzione alle sfide profonde del nostro paese. Ci sono tanti punti da affrontare che rappresentano molto più che la scelta di donne o uomini che vadano a occupare posizioni di leadership».

Avete fatto appelli pubblici ai cittadini?

«Sì, più di uno. Chiediamo a tutti i leader di favorire presso i loro seguaci un clima di pace, tutti possono e debbono esercitare il diritto a protestare, ma che sia in modo assolutamente non violento. Leadership significa esercitare una forte influenza e far riemergere quei valori che hanno guidato il nostro Paese, dopo tanta sofferenza, a un nuovo inizio. Chiediamo alla Stato che non sia lui stesso a ricorrere alla violenza e che nessuno sia più ferito o perda la vita. Uno Stato che non garantisca sicurezza ai suoi cittadini o che addirittura provochi violenze ha già fallito prima di cominciare. Infine, come Chiesa chiediamo a tutti di pregare che Dio sostenga la pace che ci ha donato e che finalmente possiamo goderci una nazione unita, pacifica e democratica».

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