Il 14 luglio del 1978, dopo aver affrontato diverse questioni che travagliavano la vita ecclesiastica ed una certa non consonanza con l’arcivescovo Benelli, sostituto alla Segreteria di Stato, che era stato elevato alla porpora e designato quale arcivescovo di Firenze, e certi problemi sorti nella Compagnia di Gesù, a capo della quale fu designato dal Papa stesso il suo confessore padre Dezza, Paolo VI si apprestò a lasciare il Palazzo del Vaticano, per trasferirsi nella Villa pontificia di Castel Gandolfo, dono ai Papi della nobile famiglia Savelli.

Paolo VI, prima di imbarcasi sull'elicottero, volle passare a visitare nelle loro abitazioni alcuni cardinali segnati dalla salute precaria. Tra questi volle recarsi dal cardinale Alfredo Ottaviani, debilitato dalla cecità, che fu un suo oppositore. La testimonianza dell’allora segretario di Ottaviani (che diverrà poi cardinale) monsignor Agustoni, originario del Canton Ticino, rivela la premura del Santo Padre in un colloquio commovente, che vide Paolo VI, dopo aver pregato e benedetto il cardinale e i suoi familiari, salutarlo con gesti e parole che presagivano che quello fosse un ultimo incontro. All’uscita dall’appartamento del Palazzo del Sant’Uffizio, Papa Montini disse a monsignor Agustoni: «A volte con Sua Eminenza non ci siamo capiti, ma entrambi abbiamo servito la Chiesa. Gli stia vicino, è un leale prete romano».

Negli ultimi giorni della sua vita il Papa volle recarsi nella località di S. Maria delle Mole alla Frattocchie e chiese di aprire la cripta della chiesa, fatta erigere dal cardinale Giuseppe Pizzardo, dove riposavano le sue spoglie e quelle della sorella, zelatrice dell’Università cattolica. Si fermò in preghiera. Ad accogliere il Pontefice, il parroco ed il vescovo di Albano, monsignor Bonicelli. Pur sofferente per l’artrosi non si risparmiò in gesti di adulta devozione e di apprezzamento per l’opera del porporato. Prima di risalire in automobile disse a don Macchi: «Ora siamo in pace».

Ritornati nella Villa Pontificia, aperta la portiera dell’autovettura papale, il cane lupo Diana, che gli avevano regalato anni prima e che aveva fatto portare a Castel Gandolfo e che durante le estati godeva un po’ della sua compagnia, si gettò affettuosamente verso di Lui sgualcendogli la veste bianca, in un atteggiamento affettuoso insolito. Anche questo fu un segno premonitore per entrambi: dopo un anno dalla morte di Paolo VI anche Diana finì i suoi giorni.

A Castel Gandolfo, pur sofferente, Paolo VI ritmò le sue giornate tra preghiera, lettura del “Gesù” di Jean Guitton, corrispondenza e disbrigo pratiche. Predispose la riflessione per la solennità della Trasfigurazione, che fu letta ai fedeli quel 6 agosto, mentre lui si preparava all’incontro con il suo Signore, dopo l’unzione dei malati e l’eucarestia ricevuta con una devozione singolare, come attestò don Macchi. Poi Paolo VI si raccolse in una intimità spirituale, ripetendo continuamente la preghiera alla Vergine ed il Pater fino all’ultimo respiro. 

Quando alle 21,40 spirò, la vecchia sveglia regalatagli dalla madre Giuditta per la sua prima missione diplomatica in Polonia, suonò l’ora del dies natalis. Ora la Chiesa si appresta, il 14 ottobre, a iscrivere Paolo VI nell’Albo dei Santi.

 

* Vicario episcopale per il laicato e la cultura della Diocesi di Trieste 

 

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