Le prime sanzioni disposte da un Paese della Nato contro un altro Stato membro dell’Alleanza nord-atlantica verranno giustificate in nome della libertà religiosa. Accade tra Stati Uniti e Turchia. E la vicenda che fa da pietra d’inciampo ai rapporti tra Trump e Erdogan è quella di Andrew Craig Brunson, pastore evangelico statunitense, tenuto per quasi due anni nelle carceri turche, e ora sotto processo con l’accusa di spionaggio e partecipazione e atti terroristici e trame sovversive anti-turche. I vertici Usa, per bocca del vicepresidente Mike Pence, lo definiscono vittima di «persecuzioni religiose». Proprio mentre tutti i capi delle Chiese e delle comunità di fede non musulmane presenti in Turchia – compreso il patriarca ecumenico Bartolomeo I e il rabbino capo Ishak Haleva – sottoscrivono una dichiarazione per riaffermare unanimi di non subire nessuna pressione da parte delle autorità turche, che consentono loro di praticare la propria fede in totale libertà.

Un caso rivelatore

Quella del pastore Brunson è una vicenda aggrovigliata, ma comunque rivelatrice di quanto la questione delle condizioni delle comunità cristiane e della libertà religiosa stia diventando sempre più terreno e strumento di operazioni geo-politiche, non solo in Medio Oriente. Andrew Craig Brunson, responsabile della Chiesa evangelica della Resurrezione a Izmir (Smirne Diriliş Kilisesi), collegata alla Chiesa evangelica presbiteriana di Orlando (California), è finito in carcere nell’autunno 2016, dopo che un testimone segreto lo aveva accusato di appartenere al cosiddetto Fetö, acronimo turco di “Organizzazione terroristica Fethullahnista”, definizione con cui gli organi turchi filo-governativi indicano la rete di Hizmet (il movimento ispirato dal predicatore musulmano Fethullah Gülen, indicato dal governo turco come il grande regista del tentato golpe del 15 luglio 2016). Nei due anni di detenzione, le accuse rivolte contro Brunson da testimoni quasi sempre anonimi sono andate crescendo, e hanno assunto spesso connotati difficilmente credibili. Il pastore è stato accusato perfino di sostenere la nascita di un fantomatico “Stato curdo cristiano” destinato a occupare anche parte del territorio turco. All’ultima udienza, svoltasi lo scorso 18 luglio, a Brunson è stata rivolta l’accusa di tenere presso la chiesa di Izmir materiale propagandistico del Pkk – la formazione paramilitare curda indicata come “organizzazione terroristica” sia dalla Turchia che dagli Usa - e di aver posto sulle sedie del luogo di culto dei cartelli con la scritta «divieto di sedersi per i turchi».

La vicenda Brunson ha accresciuto col tempo la sua valenza di “casus belli” tra Washington e Ankara. In passato il presidente Usa, Donald Trump, aveva chiesto personalmente tre volte, anche in colloqui diretti col presidente turco Tayyip Erdogan, la liberazione del pastore evangelico statunitense. Il pressing Usa aveva avuto un’impennata nelle ultime settimane, anche attraverso dichiarazioni del vicepresidente Usa Mike Pence e i tweet lanciati dallo stesso Trump. Le reazioni di parte turca avevano respinto con toni sdegnati le richieste provenienti da Washington, dopo che le autorità giudiziarie turche si erano limitate a concedere a Brunson la misura degli arresti domiciliari, in attesa della prossima udienza del processo, fissata per il 22 ottobre. Alla fine, mercoledì 1 agosto, sono scattate le minacciate sanzioni, sia pur con obiettivi “mirati”: il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti d’America le ha rivolte in particolare contro i titolari di due Ministeri turchi, quello della Giustizia (guidato da Abdulhamit Gul) e quello degli Interni (guidato dal Ministro Suleyman Soylu) indicando quei dicasteri governativi turchi come responsabili diretti dell’arresto e della detenzione del pastore Brunson.

«L’ingiusta detenzione del pastore Brunson e il protrarsi dell’accusa da parte di funzionari turchi sono semplicemente inaccettabili», ha affermato il Segretario del Tesoro Usa Steven Mnuchin, aggiungendo che il presidente Trump aveva espresso in maniera inequivocabile le aspettative di Washington per l’immediata liberazione di Brunson da parte della Turchia. Intanto, poco prima dell’annuncio delle sanzioni Usa, da Ankara, Erdogan aveva dichiarato davanti a operatori dei media che la Turchia non avrebbe dato alcun peso al «linguaggio minaccioso» dei leader statunitensi, definendolo espressione di «una mentalità evangelicale e sionista».

Al di là dell’asprezza dei toni, l’impressione è che sulla testa dello sfortunato predicatore evangelico si giochi un braccio di ferro con implicazioni più vaste della sua vicenda personale. Erdogan ha più volte tentato di contrattare la liberazione di Brunson chiedendo in cambio alle autorità statunitensi che venga estradato e consegnato alla Turchia Fethullah Gülen, esule in Usa dal 1999. D’altro canto, i leader turchi lasciano intendere che le pressioni Usa nei loro confronti – compresa la minaccia di bloccare la vendita degli aerei da guerra F35 al governo di Ankara – mirano soprattutto a spingere la Turchia ad aderire all’embargo contro l’Iran: «Né gli Stati Uniti, né l’Unione europea - ha dichiarato di recente il Ministro degli esteri turco Mevlüt Çavuşoğlu – possono obbligarci a unirci a loro nella loro decisione di punire l’Iran attraverso delle sanzioni».

Il dinamismo della “politica religiosa” di Erdogan

Mentre gli Usa si apprestavano ad annunciare le sanzioni “mirate” contro soggetti politici governativi turchi per il caso-Brunson, i capi delle Chiese e comunità religiose non musulmane presenti in Turchia si sono uniti per sottoscrivere una dichiarazione congiunta in cui affermano di vivere la propria fede in piena libertà e respingono le accuse secondo cui gli appartenenti alle minoranze religiose di quel Paese siano sottoposte a costanti “pressioni” e discriminazioni da parte degli apparati turchi. Tra i tanti firmatari della dichiarazione, oltre al patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I e al rabbino capo Ishak Haleva, figurano anche l’arcieparca armeno cattolico di Costantinopoli, Levon Boghos Zekiyan, e l’arcieparca armeno apostolico Aram Ateşyan, che esercita le funzioni patriarcali in qualità di vicario patriarcale. «Le affermazioni secondo cui le nostre fedi sarebbero sotto pressione appaiono totalmente infondate», si legge tra l’altro nel testo della dichiarazione.

Osservatori presenti in Turchia leggono il pronunciamento come una risposta all’ultimo report del Dipartimento di Stato Usa sulla libertà religiosa, che ha descritto in modo fosco la condizione delle minoranze religiose turche. Gli stessi analisti considerano la dichiarazione come una captatio benevolentiae nei confronti degli input dirigisti rivolti alle minoranze religiose dal governo turco. Negli ultimi due anni, gli apparati giudiziari turchi hanno rivolto le loro indagini e misure repressive soprattutto verso rappresentanti delle comunità cristiane della galassia evangelicale e pentecostale, mentre hanno riservato segnali d’attenzione e disponibilità verso le Chiese storiche, a partire dalla Chiesa siro-ortodossa, in linea con il “neo-ottomanesimo” a cui si ispira l’attuale leadership turca.

Anche fonti non schierate in maniera pregiudiziale a favore del governo di Ankara – come ad esempio il giornale bilingue turco-armeno Agos – prendono atto della attitudine di certo non “statica” della politica religiosa di Erdogan nei confronti delle comunità di fede minoritarie. Negli ultimi tempi, la Direzione generale delle Fondazioni (DGF) sta incentivando le pratiche per la ri-assegnazione gratuita di santuari e luoghi di culto alle rispettive comunità di pertinenza. «D’ora in poi - ha riferito di recente Agos - le chiese e le sinagoghe godranno degli stessi diritti garantiti alle moschee. grazie alla decisione presa a maggio nell’assemblea generale delle fondazioni, collegata a questa Direzione».

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