Nonostante l’attivismo egiziano per fermare l’escalation delle ultime ore e i ripetuti annunci di un cessate il fuoco, la situazione a Gaza resta tesa. Ieri sera, durante la riunione del gabinetto di sicurezza presieduta dal premier Netanyahu nella base di Camp Rabin, i caccia israeliani hanno ripreso a bersagliare la Striscia (in serata è stato colpito un palazzo a Ovest di Gaza City) e le sirene anti-missile sono risuonate a Beer Sheva (per la prima volta dal conflitto del 2014) e nei kibbutz a ridosso della cittadina

frontaliera di Sderot, dove si contano 4 feriti.

Mercoledì notte, per la terza volta nel solo mese di luglio, gli scontri iniziati a fine marzo con le manifestazioni palestinesi per la «Marcia del Ritorno», hanno rischiato di scivolare in una nuova guerra ad alta intensità. Colonne di fumo nero si levano dal confine blindato. E mentre dalla moschea al Furqan di Gaza City al campo profughi di Jabalya si invoca vendetta per le 3 vittime dei raid (tra cui una donna incinta e la figlia) e i circa 30 feriti, l’esercito israeliano fa sapere di aver intercettato con il sistema di difesa Iron Dome 30 dei 150 razzi lanciati sul proprio territorio, di aver colpito oltre 140 postazioni di Hamas e di essere «più vicino che mai ad un’operazione su vasta scala a Gaza».

Il Gabinetto di Sicurezza israeliano, dopo varie ore di riunione per discutere della situazione, «ha dato istruzione alle forze della Difesa di Israele perché continuino ad usare la forza contro i terroristi », ha detto in una nota il portavoce dell’ufficio del primo ministro Benjamin Netanyahu.

Il contesto è altamente infiammabile. Sullo sfondo della crisi c’è il lavoro di Egitto e Onu per una tregua di lungo termine tra Israele e le diverse fazioni palestinesi che nei giorni scorsi ha visto convergere a Gaza e poi al Cairo diversi leader

di Hamas in esilio per discutere la riconciliazione nazionale, l’alleggerimento del blocco economico sulla Striscia, il cessate il fuoco con Israele. Una settimana fa il leader islamista Khalil Al-Hayya aveva parlato ad Al Jazeera di «uno stato molto avanzato» dei negoziati indiretti. Secondo alcuni portavoce di Hamas, tra cui Fawzi

Barhoum, il proseguimento dell’escalation, interrotta da Hamas ieri pomeriggio, sarebbe dunque responsabilità israeliana, «un sabotaggio per colpire le trattative» e «mascherare con la guerra la perdita del proprio potere di deterrenza».

Se Israele ripete con le parole del ministro della difesa Lieberman che come sempre farà «il necessario» per fermare i missili, la strategia dei signori della Striscia è confusa. Dalla presa di Gaza contro i fratelli coltelli dell’Anp nel 2007, Hamas

ha attribuito a Ramallah, a Israele, agli Usa e al disinteresse mondiale per la causa palestinese il proprio impasse politico senza riuscire però a recuperare consenso. Uno studio del Palestinian Center for Policy and Survey evidenzia che il 45% dei gaziani sogna di emigrare (in Cisgiordania il 19%), che il 60% vuole un accordo tra

Hamas e l’arcinemico di Fatah Dahlan e che solo il 32% voterebbe oggi Hamas alle amministrative contro il 36% d’inizio 2018 (Hamas cresce invece in Cisgiordania, dal 26% al 30%).

«Hamas è alla disperazione, la vita a Gaza è intollerabile: la disoccupazione è cronica, l’acqua imbevibile, l’elettricità gira meno di 4 ore al giorno e non c’è via d’uscita per 2 milioni di abitanti» nota Hussein Ibish dell’Arab Gulf States Institute di Washington, aggiungendo che i palestinesi uccisi negli scontri per la «Marcia del Ritorno» (165 in 4 mesi) sono per Hamas «la prima buona notizia da tempo». Gli studiosi la chiamano

la «social warfare strategy», la nuova e antica strategia della guerra sociale, l’arma

della manipolazione dell’opinione pubblica internazionale, l’amplificazione delle contraddizioni nel fronte avverso e la mobilitazione delle proprie società contro nemici militarmente superiori. Un gioco pericoloso.

Fonti a Gerusalemme danno il conflitto al 90%. A Gaza si scruta il cielo senza stelle,

oltre il confine, gli israeliani dormono nei rifugi.