Il delitto perfetto o l’alibi perfetto? Nell’apprezzabile tentativo di trovare soluzione al rebus Ilva, Luigi di Maio si è cavato d’impaccio chiamando in causa il predecessore. L’ala dura del Movimento chiede la riconversione dello stabilimento, e così è scritto testualmente nel contratto di governo: occorre «la progressiva chiusura delle fonti inquinanti, per le quali è necessario procedere alla bonifica». A Taranto ci sono decine di comitati ambientali che sperano in lui per ottenere lo spegnimento di tutte le ciminiere dell’Ilva.

Dipendesse da lui, finirebbe così. Ma una volta indossati i panni di ministro è difficile non tenere conto delle conseguenze. L’Ilva è un’acciaieria e la principale fonte di lavoro e ricchezza di un’intera città. L’accordo con Mittal c’è, e la rottura significherebbe una mega richiesta di risarcimento da parte degli indiani. Sembra di assistere alla ripetizione del balletto attorno al destino della concessione di Autostrade. Ma in questo caso il governo appare più tattico che indeciso. Per capire come potrebbe andare a finire basta ascoltare con attenzione le parole del ministro in conferenza stampa.

Di Maio crede «alla buona fede» dell’acquirente e fa sapere attraverso lo staff di avere tutto l’interesse che Mittal diventi «un proprietario responsabile dello stabilimento». I ben informati raccontano che un accordo di massima con i commissari e i sindacati c’è già: Arcelor assumerebbe 10.500 dipendenti sugli attuali 13.500. Per gli altri tremila si attiveranno incentivi all’uscita o alla pensione. Nell’arco di cinque anni si tireranno le somme: se le uscite saranno inferiori a quanto programmato, verrà riconosciuto uno sconto sul prezzo di vendita non ancora versato pari a centomila euro per ciascuno dei dipendenti ancora in servizio. Lo schema vale da subito cinquecento assunzioni in più di quanto negoziato da Carlo Calenda, esclude i millecinquecento lavoratori che sarebbero dovuti rimanere attraverso Invitalia, ma dà la garanzia che nessuno rimarrà senza reddito.

Il diavolo è sempre nel dettaglio, e il negoziato mette di Maio di fronte alla prospettiva di dover rispondere delle conseguenze con chi nel Movimento gli chiede la chiusura dello stabilimento. Ecco perché ieri ha cercato di chiamarsi fuori da ogni decisione, lasciando la palla nelle mani del ministero dell’Ambiente e dei sindacati.

Questi ultimi non hanno nessuna intenzione di assumersi per intero la responsabilità di un passaggio così delicato. «Il delitto perfetto sarebbe quello di far chiudere l’azienda a una manina invisibile diversa dalla sua», dice Marco Bentivogli della Fim. La sensazione è che di Maio punti esattamente al contrario, ma l’ambiguità delle parole preoccupa chi teme di bruciarsi con il cerino fra le mani. Dice sempre Bentivogli: «Come si fa a sostenere allo stesso tempo che l’accordo va fatto, la gara è illegittima e lasciare poi aperta la possibilità di una sua riapertura?» Per tranquillizzare le sigle di Maio aggiunge che «quando ci saranno i presupposti il tavolo sarà riconvocato». Del resto questa è la strategia che il governo gialloverde usa a tutti i livelli: alzare il prezzo nella convinzione che la controparte alla fine ceda. «Se ci sarà un’Ilva pulita che dà posti di lavoro, allora l’interesse pubblico concreto e attuale sarà soddisfatto». La domanda che si fanno tutti a Taranto è: per quanto tempo ancora il leader pentastellato potrà restare nell’ambiguità? E per quanto tempo ancora accetteranno di restarci gli indiani di Mittal che promettono di investire più di quattro miliardi? Nel frattempo l’azienda continua a perdere un milione di euro al giorno, e la città è con il fiato sospeso.

Twitter @alexbarbera

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