Una lettera inedita per raccontare la multiforme attenzione ai poveri e agli ultimi dell’allora cardinale di Milano Giovanni Battista Montini, poi papa Paolo VI. Sarà pubblicata a breve presso la rivista L’Eco dei Barnabiti della Congregazione dei Chierici di San Paolo, introdotta e corredata dalla testimonianza del religioso barnabita padre Giovanni Rizzi. In dialogo con l’autore siamo in grado di offrire in anteprima il contenuto della lettera insieme ai passaggi principali della riflessione.

Procediamo dapprima indicando le coordinate storico contestuali. Milano 1958, negli anni a ridosso dell’annuncio dell’indizione del Concilio, un giovane sacerdote diocesano, don Mario Riboldi, presenta al Cardinale Montini una prima relazione sul suo servizio pastorale presso gli zingari, facendo seguire due anni dopo un testo ancor più particolareggiato. Il Sacerdote amava ripetere «noi povera gente», non limitandosi a una visione idealistica ma incarnando effettivamente, presso i sinti-rom, un modello di Chiesa evangelica, eucaristica e diaconizzante, la stessa che avrebbe riscoperto il Concilio. Di don Riboldi, oggi ultra 90enne è disponibile una pagina Facebook costantemente aggiornata sulle sue attività e sul suo stare con i poveri e gli ultimi, sempre accompagnato da un religioso barnabita.

Insieme a padre Giovanni Rizzi, ripercorriamo come la vicenda del Sacerdote dei rom s’incrociò con quella dell’allora Cardinale milanese.

Messo al corrente di questa diaconia tra gli ultimi, racconta padre Rizzi, Montini manifestò la volontà d’incontrare don Riboldi, e l’8 febbraio del 1960 gli indirizzò una breve missiva, fino a oggi mai pubblicata.

Per gentile concessione dei Padri Barnabiti, ecco il testo:

«Il Cardinale Arcivescovo di Milano

Milano, 8 Febbraio 1960

Caro e Rev. D. Riboldi,

ho dato una rapida visione alla lunga e particolareggiata relazione, che Ella mi ha mandata, circa la Sua opera di assistenza ai Nomadi in Lombardia. Rapida, ma sufficiente per gustarne la narrazione, per sentire pietà di questa gente singolare e per ammirare il Suo zelo.

Penso che Ella avrà mandato copia del Suo scritto a chi presiede a cotesto genere di ministero. A me non resta che raccomandarLe le virtù proprie di tale lavoro: carità, prudenza, pazienza… E per chiederLe se in qualche cosa io La possa aiutare.

Intanto La ringrazio e La benedico.

GB. Card. Montini

Arciv.».

«Carità, prudenza e pazienza», sono le virtù che il Cardinal Montini suggeriva a don Riboldi, dichiarando la sua piena disponibilità a poter fare qualcos’altro per questa causa che già allora con lungimiranza vedeva come possibilità più ampia di un’«opera di assistenza ai nomadi in Lombardia». Richiamava la virtù della pazienza anche perché don Riboldi desiderava fin da subito andare a vivere con gli zingari ma il Cardinale, come racconta il Sacerdote, volle prendere tempo, far trascorrere qualche anno, prima di dare il consenso definitivo, che poi, per via della sua elezione a Papa sarà concesso dal suo successore alla cattedra di Sant’Ambrogio, il cardinal Colombo.

Montini mostrava così di saper prendersi cura dei giovani sacerdoti, educandoli a discernere la chiamata del Signore. E anche da Papa rimarrà in contatto con il Sacerdote dei rom apprezzando costantemente il suo servizio.

Non senza il benestare dello Spirito si andava diffondendo un sentire ecclesiale desideroso di riscoprire il volto di Cristo tra i poveri e gli ultimi, si percepiva che era questa l’identità che doveva riaffiorare. Il tutto confluì in quella «Chiesa dei poveri» che il Concilio avrebbe rifondato cristologicamente. Si tratta di un’espressione utilizzata nel radiomessaggio dell'11 settembre del 1962 da Giovanni XXIII, mutuata dal cardinal Suenens e poi ripresentata dal cardinal Lercaro, con la collaborazione di Dossetti, nel noto intervento presso la congregazione generale del 6 dicembre 1962, approvato anche dal cardinal Montini, futuro Pontefice. Nell’attuale pontificato la riflessione sulla «Chiesa dei poveri» si è in un certo modo completata con quella di una «Chiesa povera per i poveri». Per essere dei poveri anche la Chiesa dev’essere povera, ma non esclusivamente secondo il piano di una riflessione sociologica ma ricentrandosi cristologicamente ed eucaristicamente, attraverso la riscoperta dell’egemonia della Parola di Dio.

Accompagnati dall’analisi del religioso barnabita cerchiamo di declinare il modo in cui si è ecclesialmente manifestata questa rinnovata attenzione ai poveri e agli ultimi: «Lo Spirito Santo – scrive Rizzi – sta suggerendo da tempo alle Chiese di muoversi verso una nuova evangelizzazione, magari incominciando dagli ultimi, dai lontani».

Il richiamo alla necessità di una nuova evangelizzazione non appare in questa luce come una strategia per incoraggiare una nuova stagione di proselitismo ma anzi si presenta come un modo per incarnare l’Evangelo fra i poveri e gli ultimi, di condividere Vangelo ed Eucarestia. Sottolineatura, quella di padre Rizzi, che fa riflettere sulla linea di continuità che lega il cammino delle chiese diocesane a quello della Chiesa tutta: «Negli anni ’80 il nuovo Arcivescovo di Milano (il Cardinale Carlo Maria Martini) – scrive padre Giovanni – aveva indicato nei “lontani” una nuova frontiera della cura pastorale e della missione della Chiesa».

Stesso sentire che per quella osmosi favorita dallo Spirito si poteva registrare negli orientamenti magisteriali di San Giovanni Paolo II, che puntò molto sulla nuova evangelizzazione, e la volle incarnare mettendo al centro dei suoi discorsi e dei suoi viaggi apostolici i poveri e gli ultimi. «Contemporaneamente – aggiunge Rizzi – (anche) Benedetto XVI aveva sospinto per una “nuova evangelizzazione”, e ora Francesco, con il suo linguaggio caratteristico sta spingendo verso le “periferie”».

Tra queste periferie geografiche ed esistenziali rimane tuttora quella dei campi nomadi che il Cardinal Montini nella missiva a don Riboldi aveva definito «gente singolare» che suscitava in lui quel sentimento evangelicamente viscerale della pietà.

Le parole di Rizzi a tal proposito offrono all’attenzione di tutti una realtà alla quale forse le nostre comunità ecclesiali risultano tutt’oggi poco versate: «Più periferie dei campi nomadi rispetto alle città è difficile trovarne in Europa. Le favelas dell’America Latina, gli slums dell’India o di altri paesi asiatici e africani vanno anche ben oltre per estensione e per popolazione». Parole forse scomode, com’è scomodo il Vangelo. Con questa consapevolezza anche Francesco l’8 febbraio del 2015 ha visitato il campo nomadi di Ponte Mammolo a Roma e si è intrattenuto con i rom, e in un’altra occasione ha anche ricevuto don Mario Riboldi intrattenendosi con lui.

Se la lettura di Rizzi ha il merito d’intercettare la traiettoria con la quale lo Spirito ha inteso tratteggiare una linea di continuità tra la Chiesa del pre e post Concilio, fino ad arrivare a Francesco, che dunque ha recepito questo sentire, allo stesso modo la sua riflessione consente di illuminare il percorso del carisma barnabita. Mezzo secolo di vita, fondato infatti nel 1530, non vuol dire inoltrarsi verso un’anzianità irreversibile.

Nelle cose dello Spirito si può ritornare giovani, nella sua fantasia creativa ci sono tante primavere. Così un carisma che era noto per il suo lodevole e apprezzato servizio nell’educazione dei giovani rampolli dell’alta società, può manifestare al suo interno un rinnovato dinamismo, nuove forze ed energie per riscoprire la sequela e il servizio di Cristo anche presso i poveri e gli ultimi. Mi sembra che questa possibilità sia interessante per leggere quanto evidentemente può avvenire anche altrove, in altri carismi e in altre congregazioni. Ci sono dei processi in atto, da tempo, che giungono a noi come l’acqua che scorre in un fiume carsico, che appare, scompare e riappare, ma c’è sempre, anche se non è direttamente visibile se si adottano i criteri mondani ai quali è abituato il mondo.

È in questa luce che padre Giovanni Rizzi, nell’articolo di prossima pubblicazione, richiama le testimonianze di alcuni religiosi barnabiti che ha avuto modo di conoscere personalmente, da padre Virginio Martinoni, «cappellano degli zingari» al tempo del servizio di don Riboldi, a padre Luigi Peraboni per 46 anni in missione tra i rom, fino ad arrivare a don Massimo Mostioli, della comunità fondata da don Enzo Boschetti.

L’esempio di don Riboldi, accolto e apprezzato anche dal Cardinal Montini, spiega che questa diaconia tra i poveri non va interpretata come un’opera di volontariato o assistenzialismo ma come una missione d’evangelizzazione, che nel tempo ha generato dei frutti. Sentiamo a riguardo ancora Rizzi: «Non si può tacere che l’opera di don Mario Riboldi non è semplicemente assistenza umanitaria, condivisione di vita, vivere in una roulotte come loro e con loro, ma è anche vera e propria missione di evangelizzazione». Missione che è realmente tale quando non prescinde dal primato della Parola, quella di un Dio che ama la parola dell’uomo. «Lo documentano – continua Rizzi – le traduzioni di libri biblici nelle lingue proprie dei nomadi, coinvolgendo in questo lavoro il cuore grande e generoso di un studioso di primissima grandezza della Chiesa di Milano: Mons. Enrico Galbiati, biblista e orientalista di fama mondiale e di eccezionali capacità linguistiche, se è riuscito a creare praticamente dal nulla una grammatica per le lingue sinti-rom. E poi sono sorte vocazioni alla vita monastica e religiosa, maschile e femminile tra i nomadi. Ci sono stati dei martiri tra gli zingari, riconosciuti tali anche dalla Chiesa … E la missione è ancora aperta». E come dice il Vangelo, un albero si riconosce dai frutti (cf. Lc 6,44).

* Docente di Teologia biblica

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