Al netto dell’uso strumentale e polemico delle vicende che in questi tempi agitano la Chiesa degli Stati Uniti (e non solo), l’emergere di una conclamata fragilità etica in porzioni significative del clero e addirittura dell’episcopato, pone domande che non possono essere prese in carico in maniera sbrigativa.

Quanto è davanti agli occhi di tutti è qualcosa di più ben grave di una quantità più o meno grande di disordini e immoralità nell’ambiente clericale. Esse non sono certamente mancate in stagioni passate della vita della Chiesa, ma – di fatto – non hanno quasi mai rappresentato un fattore di crisi come quello a cui stiamo assistendo.

Per mettere a fuoco in maniera adeguata le questioni soggiacenti, va ricordato che da più di cinquecento anni (a partire dalla applicazione delle decisioni assunte nel Concilio di Trento), la cura della formazione dei preti è stata affidata all’istituzione dei seminari. Pur con le comprensibili riforme e aggiornamenti via via intervenuti nel mutare dei tempi, va riconosciuto che l’educazione dei seminaristi ha privilegiato una cura tutta speciale all’educazione al celibato e alla castità.

Sarebbe semplicistico e ingeneroso concludere sancendo il fallimento di un’impostazione pedagogica che, nessuno lo può negare, ha prodotto nei secoli frutti di santità e una schiera innumerevole di preti virtuosi e fedeli alla propria vocazione.

È evidente che alla base delle vicende attuali sta un’evidente mondanizzazione del ceto clericale in forza della quale esso appare estremamente permeabile agli esiti più equivoci di quel clima di «rivoluzione sessuale» che da decenni ha investito le nostre società occidentali, parti non piccole del popolo cristiano e ora anche i sacerdoti e i vescovi.

Dove individuare, allora, le ragioni di questo fenomeno? Di fronte a quello che è stato un vero mutamento d’epoca nell’ambito della concezione del corpo, dell’amore e della sessualità, la comunità cristiana si è trovata in una posizione non facile. Per troppo tempo queste tematiche sono rimaste al margine della riflessione teologica e della stessa cura pastorale, di fatto demandate interamente all’ambito delle norme morali, dominate dalla preoccupazione di salvare il primato della procreazione come unico fine legittimo dell’esercizio della sessualità. Ancora negli anni del Vaticano II si guardò con sospetto a chi proponeva l’esperienza dell’amore coniugale come costitutivo della vocazione al matrimonio.

Si è dovuto attendere Giovanni Paolo II per registrare un primo, organico tentativo di un insegnamento ecclesiale su questi temi, ma conviene anche ricordare che, dopo mezzo secolo, il dibattito su Humanae vitae è ancora capace di generare dibattiti e contrapposizioni polemiche tra opposte fazioni.

In breve: la comunità ecclesiale si è trovata spiazzata e sguarnita di strumenti adeguati per confrontarsi con i radicali cambiamenti di mentalità intervenuti nel vissuto degli uomini del nostro tempo nel campo della vita affettiva e della sessualità.

La speciale cura con cui da mezzo secolo la Chiesa mette a tema la cura pastorale della famiglia manifesta quanto il problema sia stato avvertito e chieda di essere affrontato nella consapevolezza che non tutti i nodi sono stati ancora sciolti.

Tutte queste dinamiche non potevano che avere un loro speciale riflesso nella formazione del clero, soprattutto per quanto riguarda il profilo di uno stato di vita celibatario. In un panorama culturale e sociale in cui è sempre più difficile proporre un matrimonio tra uomo e una donna, fedele, indissolubile e aperto alla vita, come dare le ragioni dello speciale stato di vita richiesto ai preti?

Nel prendere in carico questa domanda occorre chiedersi se non ci sia stato nel passato un certo squilibrio tra l’educazione al celibato e l’investimento nel formare uomini chiamati a essere pastori e guide delle comunità. Una dissociazione tra queste due fondamentali preoccupazioni pedagogiche ha fatto sì che non si sia avuta la necessaria cura di mostrare che l’ineludibile dimensione affettiva dell’esistenza può essere vissuta in pienezza dal prete «celibe» proprio nell’esercizio della sua missione pastorale: una piena e totale condivisione della vita dei fedeli che gli sono affidati.

In breve: al prete cattolico è chiesto di vivere celibe per potere essere fino in fondo pastore, padre e amico di ciascuno dei membri della comunità ecclesiale cui è inviato.

Si badi bene a non banalizzare questa affermazione: qui si dice molto di più del fatto che un prete con famiglia avrebbe meno tempo per la comunità, ma è in gioco un fondamentale assetto affettivo della persona. Per questa ragione invocare il matrimonio per i preti come risposta alla crisi attuale segnala un’ingenua e scorretta comprensione della figura stessa del sacerdote... e del matrimonio.

Al di fuori di ciò è inesorabile che si crei un disagio che fatalmente apre la porta a vie di fuga che, in un modo o nell’altro, ricercano compensazioni disordinate.

In proposito è interessante registrare che negli ultimi decenni si è registrato un singolare revival neo-tradizionalista anche nei metodi di formazione dei seminaristi, soprattutto di fronte alle difficoltà dovute al fatto che molti candidati al sacerdozio hanno un vissuto molte volte distante e problematico sui temi dell’affettività e della sessualità.

Procedendo in questa direzione si è enfatizzato il profilo celibatario come sigillo di una figura di prete tutta incentrata sull’esercizio di un ruolo (clericalismo) che è esattamente l’opposto della figura del pastore. Si aggiunga che in questa impostazione talvolta si teorizza quasi una «censura» sulla dimensione della vita affettiva: se il prete deve «essere per tutti» non deve avere nessuna preferenza o coinvolgimento affettivo con chicchessia. La figura di un prete anaffettivo è la negazione obiettiva del suo essere pastore e padre.

Ci si può chiedere se un tale assetto possa favorire una mentalità che, distinguendo tra «ruolo» pubblico e «vita» privata, sia all’origine della leggerezza con cui non pochi sacerdoti hanno accettato di condurre purtroppo una «doppia vita».

Registrare dolorosamente il rischio, mai evitabile a priori, di una mondanizzazione dell’esperienza della fede cristiana chiede allora di investire almeno in due direzioni.

Innanzitutto occorre rendersi conto che una convincente comprensione teologica del corpo, dell’amore e della sessualità nelle loro originarie e reciproche implicazioni, è un traguardo a cui è necessario mirare con grande energia, valorizzando quanto già è patrimonio del sapere cristiano, ma che chiede di essere ancora sviluppato e approfondito. C’è da augurarsi di poter guardare alla crisi di oggi come una «felix culpa», capace di suscitare un rinnovato impegno in questo campo.

Se non si collocano in questo ampio orizzonte i drammatici problemi oggi all’ordine del giorno si rischia di ridurli semplicemente a un’inattesa recrudescenza di comportamenti immorali da parte del clero, senza rendersi conto che la posta in gioco è molto più alta. Sta forse in questa percezione ridotta del fenomeno la ragione per cui essa è stata per troppo tempo sottostimata anche da taluni di quanti avevano il compito di vigilare e correggere.

In secondo luogo si tratta di ripensare il cammino educativo dei candidati al sacerdozio nella direzione di evitare che il «celibato» venga inteso come una «premessa» dovuta all’assunzione di un ruolo nella Chiesa, ma la forma di vita del pastore. Diversamente sarà quanto mai difficile sciogliere il perverso connubio tra mondanizzazione e clericalismo di cui oggi gustiamo amaramente i frutti.

*Ordinario di Antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per Studi su Matrimonio e Famiglia – Roma

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