Quando, nel novembre 2016, ho iniziato le riprese per «La battaglia di Mosul», avevo un obiettivo: quali che fossero i rischi, le insidie o le vicissitudini di una guerra di cui nessuno sapeva quando o come sarebbe finita, dovevo raggiungere la tomba di Giona, sul Tigri, nel centro esatto della città. Questo è stato fatto. L’ultima dimora, ridotta allo stato di cenere e macerie, di colui che ritengo il più enigmatico e in fondo, il più stimolante tra i profeti della Bibbia, L’appello di «Mosul Eye» ci chiama a un dovere. Vogliamo davvero salvare una delle città più antiche del mondo? appare in una delle sequenze finali del film. E quando io e la mia troupe decidemmo che la missione era compiuta, ci fu questa doppia soddisfazione: aver seguito, fino alla fine, la prima metà di questa guerra di liberazione e allo stesso tempo aver trovato ciò che pensavamo fosse l’ultima testimonianza del fatto che la capitale del Califfato era stata, al tempo in cui si chiamava Ninive, un luogo eletto della narrativa biblica e, di conseguenza, della storia ebraica.

Ma ecco. Colpo di scena. La settimana scorsa mi telefona il mio vecchio amico Hugues Dewavrin, vicepresidente dell’Ong la Guilde du Raid, che mi aggiorna. C’è, a Mosul, un certo Omar Mohammed, autore del blog «Mosul Eye», che non ha mai smesso, per tutto il tempo dell’occupazione dell’Isis, di diffondere notizie sulla devastazione della città. È uno «storico cittadino» di grande talento, innamorato della sua città, e tutti i giornalisti della regione aspettavano le sue informazioni, all’epoca anonime, perché sapevano che erano le più affidabili sulla vita quotidiana degli abitanti di Mosul. Bene, alla fine di giugno, Omar Mohammed ha pubblicato foto sorprendenti: nel cuore della città vecchia, dove i jihadisti si erano trincerati per la loro ultima, disperata resistenza, è emersa dal nulla una sinagoga di cui nessuno sembrava conoscere l’esistenza. «Ciao a tutti», ha scritto poi, su Twitter! Lancio un appello, ho bisogno di aiuto! Ho trovato, incise su delle pietre blu, strane iscrizioni in ebraico - e ho bisogno di volontari per trascriverle e tradurle».

E da lì si compie il miracolo di Internet. Carlos C. Huerta, rabbino dell’esercito nel 2003, all’epoca dell’invasione americana dell’Iraq, risponde che gli ricorda qualcosa. Frida Ghitis, giornalista della Cnn e veterana delle guerre in Iraq, ma anche del Kosovo e di Gaza, decifra una benedizione del Deuteronomio. Un archeologo israeliano risponde che vede - ma sta parlando della stessa stele? - un versetto del Libro dei Re e un omaggio a Yahya Ben Meir e Meir David Halevi. Per un altro, con sede a Londra e specialista nella doppia storia, ebraica e araba, della pietra di Gerusalemme, si tratta piuttosto del Libro dei Proverbi. Per un altro, che scrive dal Brookings Institution di Washington, è un passaggio dal Libro dei Numeri. Un altro ancora, un ex diplomatico israeliano, pubblica foto risalenti al secolo scorso di una strada molto simile dove calzolai ebrei sono intenti a riparare le scarpe dei loro vicini arabi.

In breve, bastano poche ore di conversazione felice e ispirata sui social network per eliminare gli ultimi dubbi e concordare, almeno su questo punto: l’Isis, nella sua stupidità abissale e profonda ignoranza teologica evidentemente non l’aveva compreso, ma lì - trasformata in deposito di armi e munizioni - c’era una sinagoga simile a quelle che si trovano nella parte curda dell’Iraq (ma in Kurdistan sono riconosciute e onorate in quanto tali!). Questa scoperta conferma ciò che si sapeva della presenza, a Mosul, fino alla sua evacuazione nei primi Anni ’50 del ’900, di una comunità ebraica composta da decine di migliaia di anime. E ci ricorda che i luoghi sono come i cuori, che devono anch’essi nascondersi, seppellirsi, assumere un’identità presa in prestito, cambiare, per sopravvivere. Può darsi che esista una forma di marranismo urbano, tale che, dopo decenni di occultamento, gli stessi jihadisti che hanno metodicamente distrutto i templi yazidi, le chiese cristiane, l’antica moschea Nuri, oltre naturalmente alle minime vestigia dell’antica storia ebraica, possano essere passati accanto a un luogo santo dove si continuava, ma in segreto, a cantare le lodi del Signore.

Ma, soprattutto, l’appello di «Mosul Eye» ci chiama a un dovere. Vogliamo davvero salvare una delle città più antiche del mondo? L’Unesco pensava davvero ciò che ha affermato quando ha battezzato il suo programma di ricostruzione urbana e politica «lo spirito di Mosul»? Saremo in grado di riportare questa città sfigurata a essere il crocevia di popoli, religioni e civiltà che è stata per secoli e che la sua anima imperitura aspira a ridiventare?

Se è così, dobbiamo ascoltare questo studioso musulmano che, dall’occhio del ciclone, il cuore immobile di quello che è stato l’epicentro del jihadismo globale, chiede di far tornare alla vita l’ultima sinagoga ancora esistente nella città del profeta Giona.

Altrimenti, se ci riveliamo incapaci di accettare questa magnifica e sacra sfida, se non riusciamo ad elevarci all’altezza di questo figlio del Corano che vuole ricordare di essere anche l’erede di Mosè, allora addio Fratellanza, Addio Pace - e avanti verso lo strazio della guerra di religioni e di culture.

(Traduzione di Carla Reschia)

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