Caro Direttore,

in maniera compatta intellettuali di vario genere ci spiegano ogni giorno quanto sia meravigliosa e desiderabile la società multietnica e multiculturale a cui stiamo andando incontro. Non ha nessuna importanza che la realtà sia diversa.

Negli Stati Uniti, dopo trecento anni di convivenza, le tensioni razziali sono un problema irrisolto. In Francia e Inghilterra le maggioranze di colore sono una bomba ad orologeria. In Germania anche i giornali progressisti ormai riconoscono che, nelle grandi città, interi quartieri sono sottoposti alla sharia islamica (poligamia compresa) e la polizia non può entrarvi. Addirittura nella civile e tollerante Svezia le tensioni razziali sono arrivate ad un livello esplosivo.

Ma tutto questo non conta: nella testa degli intellettuali l’immigrazione rimane quella cosa fantastica che darà vita ad una società idilliaca piena di colori, dove ci sarà spazio per tutte le culture più diverse. Con i trenta euro spesi quotidianamente a migrante potremmo aiutare almeno dieci persone nei loro Paesi d’origine, nella loro cultura e vicino ai loro affetti: ma fare questi ragionamenti per gli intellettuali è da razzisti. E mentre in Occidente ci trastulliamo con l’idea dello ius soli, i migranti non perdono occasione per ricordarci che l’unica identità che conta è quella del sangue: esemplare l’esultanza dei nazionali svizzeri di origine albanese ai Mondiali in Russia, a mimare l’aquila albanese per dispetto agli avversari serbi.

La maggioranza degli europei sta cominciando a capire, solo gli intellettuali continuano imperturbabili a parlare di immigrazione come «opportunità».

Marco Racca, Marene (CN)

Caro Racca,

la società multietnica è una realtà difficile da negare per la composizione oramai eterogenea della maggioranza delle popolazioni delle democrazie avanzate. È certamente vero, come lei scrive, che continua ad essere venata da lacerazioni e difficoltà di ogni tipo di cui troppo spesso non si parla. Ma l’opzione di rispondere a queste difficoltà ricreando società mono-etniche non è praticabile da nessun Paese: non dagli Stati Uniti, dove le minoranze non-bianche oramai sono la maggioranza, e non dall’Italia perché sono decine di migliaia oramai le famiglie etnicamente miste, componendo un tassello-chiave del tessuto nazionale. Ciò non significa tuttavia che i problemi da lei sollevati siano inesistenti, anzi. Il vero bivio di fronte a cui si trovano oggi i Paesi occidentali - verso i quali si dirigono una moltitudine di individui provenienti da Asia, Africa e America Latina - è come gestire l’integrazione. Questo è l’argomento di cui è doveroso discutere perché vi sono Paesi dove l’integrazione degli stranieri ha più successo - ad esempio Canada e Stati Uniti - ed altri dove invece è in grave affanno, come la Francia e la Svezia.

Da qui la necessità di porre attenzione agli indicatori capaci di fare la differenza. Il primo e più importante è il rispetto dell’ordine pubblico: basta andare a Cleveland o Toronto e fare il paragone con Malmoe o la periferia parigina per accorgersi che lì dove gli immigrati ottemperano a leggi e regolamenti l’integrazione corre più veloce. Ovvero, sta a Stati e governi impegnarsi a garantire il più rigido rispetto della legge perché è la premessa per un incontro proficuo fra residenti e nuovi arrivati. Ma c’è dell’altro ed ha a che vedere con il lavoro e la fede. Sul fronte del lavoro, creare opportunità per una percentuale importante di nuovi venuti - come è riuscita a fare la Germania di Angela Merkel - facilita l’integrazione mentre sul fronte della fede ci troviamo davanti ad un processo nuovo: l’impatto con costumi e tradizioni occidentali di individui e famiglie portatori di usi e convenzioni assai distanti, risalenti ad altre epoche storiche. Ciò significa che chi arriva sta attraversando una fase di trasformazione non dissimile da quanto avviene all’Occidente: in entrambi i casi si tratta di accettare il prossimo a dispetto delle diversità. Il segreto è che affinché questo processo abbia successo entrambi, e non una sola parte, dovranno sconfiggere i propri tabù tribali.