Tenere vivo lo spirito di Assisi nel nome dei “Ponti di pace” ha portato la Comunità di Sant’Egidio a scegliere temi di stringente attualità come accoglienza, solidarietà, non-violenza, Europa, guerre dimenticate, amicizia intergenerazionale e tanto altro per la prima giornata dei suoi confronti bolognesi. A metà mattina l’incontro con padre Alejandro Solalinde, il fondatore di “Hermanos en el Camino” più volte minacciato di morte dai narcotrafficanti, ha richiamato tantissimi giovani. 

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Il suo intervento ha toccato il tema dei migranti, ai quali ha dedicato la sua vita di prete sulla frontiera della solidarietà. Ai ragazzi che hanno gremito il Teatro Antoniano per ascoltarlo, lo ha presentato con efficacia Maria Quinto, portando le voci e i volti dei suoi amici dei corridoi umanitari che segue dal Libano e lasciando capire che quelli di cui si occupa padre Solalinde sono altri corridoi della stessa umanità. Il racconto della sua storia ha facilmente ricordato a molti la nostra storia: le sue parole hanno fatto salire sul palco tanti migranti in condizioni di estrema difficoltà che dall’America Centrale cercano di raggiungere gli Stati Uniti passando attraverso il Messico e tantissime asprezze, che sovente si chiamano incomprensione, rifiuto, crimine organizzato. 

La sua vita al fianco di chi fugge da quelli che ha definito «autentici inferni di violenza e miseria», non è stata però una vita facile da immaginare, perché il suo racconto ha fatto scoprire anche i tanti gruppi di studenti universitari statunitensi che vanno nelle case di accoglienza messicane a conoscere i migranti, «autentici ponti di dialogo». Il fiume di profughi di cui ha parlato, nell’80% dei casi giovani alla ricerca di vita, nel suo Messico dove vive? Nelle case di accoglienza. Per la legge, ha sottolineato, non sono illegali, ma irregolari, ma raramente vengono considerati così. Vivendo le loro difficoltà «ho capito che la miseria è provocata dal sistema economico liberista e quindi che esistono molti attori protagonisti in questa tragedia contemporanea. Una tragedia che ci parla della debolezza spirituale del mondo». 

Dopo aver ricordato che in Messico l’82% della popolazione è cattolica, Alejandro Solalinde ha scandito le sue domande: «Chi legge la Bibbia? Chi vive in contatto con il Vangelo? A cosa sono serviti allora 500 anni di evangelizzazione?». Seguendo quei migranti che cercano di spostarsi da una casa di accoglienza all’altra, ha dato l’impressione che il crimine organizzato sia anche “crimine autorizzato”, per il quale il migrante è una merce. Per questo vede un nuovo movimento, quello costituito dai migranti e dai volontari, «a riprova che la religione da sola, senza la pratica della solidarietà, rischia di diventare inutile». 

La testimonianza spirituale di padre Solalinde ha accavallato il suo racconto della vita, delle marce, del confronto con le asprezze quotidiane, con riflessioni profonde: «Vedete, una cosa è la fede, altra la religione. La religione in fin dei conti consiste in atti che ci consentono di parlare a Dio, ma è la fede che ci consente di ascoltarlo». Le case di accoglienza nel suo raccontano sono diventate così dei santuari e, mentre i tanti giovani presenti non lo lasciavano uscire per seguitare a fargli domande, al piano sottostante il centro di ascolto per stranieri in difficoltà si animava di tantissimi arrivi e la mensa già apriva i battenti. 

Nel pomeriggio, al Centro San Domenico, anche questa storica istituzione dei domenicani è risultata quasi piccola per seguire il dibattito su «come resistere al male». Ha aperto la discussione la scrittrice di origine armena Antonia Arslan, che ha concentrato il suo intervento su un nuovo volume che raccoglie le testimonianze di 15 intellettuali, un frammento di quella élite armena che venne completamente annientata durante il genocidio. I loro scritti per Arslan evidenziano che il male è bugiardo e vile, infatti tutti gli scritti di questi intellettuali prima deportati e poi trucidati convergono nel raccontarci che gli fu detto che venivano portati via per garantirne l’incolumità. Una volta giunti a destinazione furono anche autorizzati a scrivere a casa, a chiedere l’invio di aiuti economici. Solo dopo, vilmente, furono assassinati. Tutti. Ridare un volto, un nome, a tante vittime è importante, per ricostruire una storia che ancora dopo quattro generazioni produce «incubi, ossessioni, manie». Tra i testi raccolti nel volume Antonia Arslan ha voluto ricordare in particolare le poesie di un giovane, ritrovate per caso nella tasca della giacca che indossava quando fu assassinato. Aveva con sé sei quaderni di poesie, stava scrivendo una raccolta sulla vita contadina; tutte le altre sono state distrutte. 

Zaid Mohammad Bahr al-Uloom, segretario dell’istituto sciita iracheno al-Khoei, si è interrogato sulla complessità di definire il male, con il quale l’uomo si confronta da sempre: proprio per consentire all’uomo di scegliere il bene e non il male, ha ricordato, Dio ha fatto discendere i libri celesti. È seguita la sua idea forte: «Con i tempi l’uomo però cambia e può ritrovarsi davanti all’eterno bivio confuso e non riuscire più a distinguere». Quindi, ricostruendo l’esperienza dolorosa del suo Paese, ha posto la domanda su come si resista al male: anche con la violenza? Gli iracheni per lui hanno detto di no, sottraendosi alla tentazione della vendetta anche dopo la caduta della dittatura di Saddam. 

L’interrogativo posto da al Uloom ha condotto quasi naturalmente all’ applauditissimo intervento di padre Jacques Mourad, il prete siro cattolico sequestrato per cinque mesi dall’Isis. Nel racconto del suo sequestro è partito da una constatazione sorprendente: «Lo considero un male, certo, ma anche un grazia, perché mi ha aiutato a guardare i fatti da dentro, che è quello che ci serve per capire». Padre Jacques Mourad ha rivissuto i quattro giorni passati in un’automobile bendato, incatenato, irriso dai sequestratori che lo hanno portato dal centro della Siria fino al nord, nella loro capitale Raqqa. Qui la sua cella era una toilette, e quando si è sentito disperato, forse incapace di resistere al male, è stata l’idea più semplice che gli ha dato la forza: «Ho capito che non mi stava accadendo nulla di eccezionale, solo quel che accadeva ad altre migliaia e migliaia di persone intorno a me. Così quando il mio carceriere mi portava del riso, lì, nella toilette, e mi guardava con rabbia, una forza non mia - è chiaro - mi consentiva di guardarlo con un sorriso che so per certo non veniva da me. Ma era così, e lui dopo qualche giorno mi ha chiesto se avessi bisogno di qualcosa». Dal suo racconto è emerso anche un messaggio dei sequestratori: «Quando un gruppo di loro venne a dire che il Califfo aveva deciso di salvarmi la vita io gli chiesi il perché, mi dissero che la decisione era dovuta al fatto che noi a Karyatayn non avevamo preso le armi contro di loro». Padre Mourad ha voluto concludere con un appello ad impegnarsi a contrastare i disegni dei signori dei traffici di armi per salvare la pace nel mondo. 

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Il direttore del quotidiano francese La Croix, Guillaume Goubert, ha cercato il bandolo della resistenza al male nel suo lavoro di giornalista. Ricordando i mesi in cui nelle periferie di Parigi si bruciavano automobili, ha sottolineato che la pubblicazione dei rapporti quotidiani delle autorità competenti ha accompagnato per mesi la crescita del fenomeno, finché non si smise di diramare quei rapporti minuziosi e cessò anche il fenomeno. Ma pensare che il problema fosse stato risolto fu un grave errore. Evitare di farsi amplificatori del male non vuol dire trascurarlo, non vederlo, o nasconderlo. Contemporaneamente però bisogna saper vedere e raccontare anche il bene, perché anche il bene è sempre all’opera, sebbene, come è noto, non faccia rumore. Dunque la sua preoccupazione quotidiana è quella di tenere insieme nel lavoro e nel racconto di ogni giorno le prime parole del documento conciliare Gaudium et spes: «Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi».

In forte ed esplicitata sintonia con padre Jacques Mourad l’ultimo intervento di questo brillante confronto, quello del pastore e teologo valdese Paolo Ricca. Convinto dell’indispensabilità della scelta della non-violenza, ha ricordato la difficoltà di resistere al male per tre motivi: «Ciò che per alcuni è male per altri è bene. Quello che è un bene per l’uno può essere oggettivamente male per l’altro. Il male può travestirsi da bene». Il primo caso lo ha spiegato ricordando che per alcuni la pena di morte è un bene, «non per la vittima, certo, ma per la comunità». Il secondo assunto lo ha esemplificato con il colonialismo che ha arricchito molte società europee, impoverendo drammaticamente è oggettivamente l’Africa. Il terzo caso è esemplificato dalla droga, il male che si presenta come bene, assicurando esperienze, sogni, felicità. 

Dopo aver osservato che il grande interrogativo riguarda il fascino che il male sa esercitare, la misteriosità della sua attrattiva, il pastore Paolo Ricca ha toccato la platea dicendo che il vero modello di resistenza al male, quello indicato anche dal discorso di padre Mourad, è la mitezza. «La mitezza ha travalicato i confini del pensiero cristiano tanto che Norberto Bobbio ha scritto L’elogio della mitezza, Gustavo Zagrebelsky ha scritto Il diritto mite, ma le nostre Chiese sono ancora lontane dal testimoniare la mitezza come stile». Per lui le Chiese dovrebbero essere palestre di non-violenza perché è l’altra logica, quella del Vangelo, quella che ci spiega che resistere al male è una tappa, l’obiettivo è vincere il male: e il male si vince con il bene. «Come insegnava René Girard - ha concluso Milena Santerini della Comunità di Sant’Egidio - la non-violenza spezza la catena della violenza mimetica».

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