La sede della nunziatura si trova in alto e domina la baia di Beirut, accanto al santuario di Nostra Signora del Libano ad Harissa a venti chilometri dalla città. Si raggiunge con una teleferica. In Libano per conto del progetto Frame, Voice, Report, a cura di Coi (Cooperazione odontoiatrica Internazionale), iniziativa realizzata con il contributo finanziario dell’Unione Europea e del Consorzio delle Ong Piemontesi, incontriamo il nunzio apostolico maltese monsignor Joseph Spiteri che da pochi mesi ha raccolto l’eredità di monsignor Gabriele Giordano Caccia. La situazione è tesa e c’è un «disagio sociale crescente» tra la comunità ospitante – che già convive con quella dei profughi palestinesi dal 1947 – e quella ospitata, i profughi siriani. Attorno ai campi di accoglienza ruota la minaccia terroristica, ponendo la questione della sicurezza nazionale. C’è poi il problema economico. Da un punto di vista finanziario i donatori internazionali hanno mostrato fatica nel sostenere le autorità libanesi che esternano la loro delusione per la mancanza di condivisione degli oneri. Il laboratorio libanese è una sfida per tutti: dodici chiese cristiane, quattro realtà musulmane divise e altre minoranze religiose. Una popolazione mediamente povera, con un’élite di ricchi.

Monsignor Joseph Spiteri, maltese di nascita, come vive il suo ministero a Beirut?

«Sono in Libano da appena tre mesi come nunzio apostolico. Mi sono subito innamorato di un Paese non molto grande ma ricco di umanità. Con i miei collaboratori sono riuscito a visitarlo quasi tutto, ma certamente ci vorrà molto più tempo per conoscerlo a fondo. Ho viaggiato molto da nord a sud e nella valle della Bekaa, dal mare alle montagne e nei confini più lontani, dove vivono comunità sofferenti per la guerra, profughi di ieri e di oggi. È ovvio che dopo poco tempo ho soltanto intuito la ricchezza e anche le sofferenze di questa zona del mondo, in questa prima immersione totale nella terra dei cedri. Il Libano è un territorio incredibile: tante comunità, prospettive tradizioni, religiose e culturali. Salutando tutti i capi religiosi cristiani e delle altre fedi, in particolare musulmani, mi sono reso conto della complessità di questa realtà. Mi piace ricordare un’espressione, condivisa dai libanesi, pronunciata dai Papi, in particolare da San Giovanni Paolo II: «il Libano è un messaggio». In effetti si presenta come qualcosa di unico».

Parlando della presenza dei cristiani in Libano, come procede il dialogo con il mondo musulmano e come si convive con le ferite di una guerra non troppo lontana?

«Il Libano è un laboratorio, un laboratorio di pace. Un luogo emblematico che dovrebbe aiutare gli altri Paesi e diventare un faro per il Medio Oriente. La convivenza è possibile, non è solamente una teoria ma in pratica la gente può vivere insieme, cristiani con i musulmani e tutte le comunità che sono molte e diverse anche all’interno delle stesse religioni. Si tratta dell’unica strada percorribile, certo tortuosa, dolorosa, complicata e difficile. E i cristiani lo sanno e vivono questa situazione. Essi sono in minoranza e rischiano di essere sempre di meno non solo in Libano ma nell’intero Medio Oriente. Si dovrebbe lavorare per cercare di diventare tutti cittadini dello stesso Paese, godendo degli stessi diritti e rispettando gli stessi doveri, al fine di creare un soggetto sociale e politico aperto».

Nel Libano si registra anche la contraddizione della ricchezza di pochi e la povertà della maggior parte della popolazione...

«Il Libano era un Paese florido e in pieno sviluppo. La guerra civile che ha devastato persone e luoghi per quindici anni dal 1975 al 1990, con migliaia di morti, ha ridotto il Paese in condizioni molto precarie. La classe media è quasi scomparsa con le conseguenze che si possono immaginare. Ora c’è una situazione difficile, una crisi politico istituzionale e soprattutto economica che preoccupa i libanesi. Ci sono tante buone persone, associazioni, gruppi e naturalmente chiese che fanno un’opera di sostegno e aiuto, ma da sole non bastano. Sono state avviate diverse iniziative animate da famiglie e persone più ricche e fortunate che dedicano tempo e progetti con attività rivolte al sociale. Ovviamente la condizione di povertà non si risolve facilmente, come ci ricorda Papa Francesco: i tempi sono lunghi ed è necessario un cambio di mentalità. In questo contesto il nostro Paese è immerso in un ambiente intorno ai propri confini di tensioni, guerre... la questione palestinese, il conflitto siriano e il pericolo dei fondamentalismi. La gente si aspetta decisioni politiche importanti: non è semplice perché l’equilibrio instabile della tradizione politica libanese, per la quale tutte le forze politiche e religiose devono essere rappresentate nel Governo, non aiuta. Ma ci sono segnali di speranza e sono la formazione, l’istruzione, la scuola. Bisogna investire sulle nuove generazioni. Il segno tangibile di questa dimensione, in un Paese pieno di contrasti, è la presenza di molte università - americane e arabe - soprattutto a Beirut, ma anche l’impegno nell’opera delle comunità religiose, e delle chiese cristiane che sono attive nella formazione spirituale e civica e sperano di sopravvivere alla loro pesante riduzione di popolazione».

Il Libano è un Paese di quattro milioni e mezzo di abitanti che accoglie un milione e duecentomila profughi, palestinesi e siriani. Una situazione non facile...

«In Europa ci si preoccupa per numeri infinitamente più piccoli mentre la situazione nel nostro Paese è drammatica e può sconvolgere l’equilibrio sociale, politico e religioso del Paese. Le Nazioni Unite sono in prima linea per aiutare le popolazioni in questa condizione di dramma umano, individuale e collettivo, ma ovviamente non basta. La situazione è molto complessa e intricata e dipende da dinamiche di geopolitica mondiale: la questione palestinese, la guerra in Siria, i venticinque anni che hanno insanguinato il Medio Oriente dalla fine della guerra civile in Libano dal 1991 a oggi. Per esempio la moltitudine dei siriani vorrebbe ritornare in patria appena la situazione si ristabilizzerà. Un rientro in sicurezza che dovrà essere assicurato dalla comunità internazionale. Anche se in generale tutto è molto migliorato e qualche ritorno è stato avviato, in realtà l’impegno dell’Occidente, della Russia e di tutti gli attori mondiali dovrebbe convergere più sul piano della diplomazia e l’azione umanitaria e meno sul piano militare».

Il Libano attende una visita di Papa Francesco, dopo quella di Benedetto XVI nel 2012?

«Il Papa vorrebbe visitare il Libano e il Medio Oriente, è in costante contatto con tutte le comunità, prega per loro, le sostiene in modo concreto ed è preoccupato. Il popolo libanese sarebbe felice di accogliere il Santo Padre e spera in un suo viaggio. Bisogna aspettare le condizioni giuste per una visita. Intanto la Conferenza delle comunità religiose del Mediterraneo, iniziativa lanciata dal presidente della Cei in visita a Beirut nel maggio scorso, sta prendendo corpo. Si tratta di un’iniziativa molto importante che ci aiuterà a trasformare il Mediterraneo in un mare di pace. In questi anni il mare ha accolto le vite di migliaia di profughi, di uomini e donne, adulti, giovani, anziani, bambini. È ora che tutti si sentano responsabili e coscienti che il dialogo, la costruzione della pace e della convivenza e la giustizia sociale sono le uniche strade da perseguire. E il Mediterraneo va considerato oltre i confini stretti che gli abbiamo sempre attribuito. Per esempio, penso che anche l’Iraq sia un Paese del Mediterraneo e anche altri Paesi che sono apparentemente lontani ma che sono uniti in una dimensione di solidarietà internazionale. Questa iniziativa, e altre già in atto e da anni attive, sono indispensabili per fare cadere tanti pregiudizi reciproci che ci tengono lontani gli uni dagli altri. La possibilità di conoscersi, vivere accanto come fratelli e sorelle, e constatare che le differenze poi non sono così marcate, ci dovrebbero guidare in questo cammino di costruzione di una civiltà dell’amore. Ci sono molte più cose che ci uniscono nella nostra umanità e spiritualità: esse sono il punto di partenza per realizzare questo laboratorio di pace da piccoli gruppi, da incontri come quello proposto dalla Cei, per cambiare la mentalità e i cuori delle persone e dei popoli».

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