La terza puntata del dossier Viganò, l’operazione politico-mediatica con la quale l’ex nunzio negli Stati Uniti e i suoi sostenitori hanno cercato - dallo scorso 25 agosto - di mettere in stato d’accusa il Pontefice arrivando a chiederne la rinuncia, presenta una sintesi cronologica efficace delle affermazioni dell’accusatore di Francesco. Come è stato già fatto rilevare da più di qualcuno, il tono - non la sostanza - della terza invettiva appare leggermente diversa dalle precedenti due. L’arcivescovo Carlo Maria Viganò infatti insiste sulle motivazioni che l’hanno spinto al suo clamoroso gesto presentando delle auto-giustificazioni religiose.

 

Scrive l’ex nunzio negli Usa che ha cercato di costringere il Successore di Pietro a lasciare l’incarico: «Ho parlato in piena consapevolezza che la mia testimonianza avrebbe provocato allarme e sgomento in molte persone eminenti: ecclesiastici, confratelli vescovi, colleghi con cui ho lavorato e pregato. Sapevo che molti si sarebbero sentiti feriti e traditi. Ho previsto che alcuni a loro volta mi avrebbero accusato e avrebbero messo in discussione le mie intenzioni. E, cosa più dolorosa di tutte, sapevo che molti fedeli innocenti sarebbero stati confusi e sconcertati dallo spettacolo di un vescovo che accusa confratelli e superiori di misfatti, peccati sessuali e di grave negligenza verso il loro dovere». 

 

È esattamente ciò che è accaduto. L’operazione Viganò, il tentativo di scaricare ogni responsabilità sull’attuale Pontefice per la cattiva gestione del caso del cardinale Theodore McCarrick, ha alzato ulteriormente il livello di tensione in una Chiesa già sfinita dal riemergere di scandali per lo più appartenenti al passato, che hanno posto numerosi vescovi sul banco degli imputati per non aver agito correttamente di fronte agli abusi perpetrati su minori dai loro sacerdoti. Se Papa Francesco ha ritenuto opportuno invitare tutti i fedeli a pregare il Rosario nel mese mariano di ottobre con una speciale intenzione per la Chiesa sotto attacco dal demonio che vuole dividere, rispolverando la vecchia preghiera a san Michele Arcangelo, ciò significa che quanto sta accadendo riveste una particolare drammaticità. 

 

Per questo vanno sottolineati questi successivi passaggi del terzo “comunicato” di Viganò: «Eppure credo che il mio continuo silenzio - continua l’ex nunzio - avrebbe messo in pericolo molte anime, e avrebbe certamente condannato la mia. Pur avendo riportato più volte ai miei superiori, e persino al Papa, le aberranti azioni di McCarrick, avrei potuto denunciare prima pubblicamente le verità di cui ero a conoscenza. Se c’è qualche mia responsabilità in questo ritardo me ne pento. Esso è dovuto alla gravità della decisione che stavo per prendere ed al lungo travaglio della mia coscienza. Sono stato accusato di aver creato con la mia testimonianza confusione e divisione nella Chiesa. Quest’affermazione può essere credibile solo per coloro che ritengono che tale confusione e divisione fossero irrilevanti prima dell’agosto 2018. Qualsiasi osservatore spassionato, però, avrebbe già potuto ben vedere la prolungata e significativa presenza di entrambe, cosa inevitabile quando il successore di Pietro rinuncia ad esercitare la sua missione principale, che è quella di confermare i fratelli nella fede e nella sana dottrina morale. Quando poi con messaggi contraddittori o dichiarazioni ambigue inasprisce la crisi, la confusione si aggrava».

 

Dunque Viganò rivela qui per la prima volta che ciò che l’ha mosso a mettere in atto la sua operazione politico-mediatica con annessa richiesta di dimissioni papali non è stata soltanto la gestione del caso McCarrick. L’ex nunzio infatti non si è preoccupato di dare scandalo, di creare confusione e di dividere la Chiesa - è lui stesso a spiegarcelo - soltanto perché, a suo dire, già prima della sua clamorosa uscita e della sua messa in stato d’accusa del Papa regnante, del Papa emerito e del loro predecessore santo, insieme ai rispettivi entourage, la confusione e la divisione regnavano sovrane. A che cosa si riferisce Viganò, secondo il quale Francesco sarebbe venuto meno alla sua missione di confermare i fratelli nella fede? Forse pensa al dibattito seguito alla pubblicazione dell’esortazione post-sinodale Amoris laetitia? O si riferisce forse al costante e martellante refrain ripetuto da certi pulpiti mediatici che quotidianamente attaccano il Papa e il 99 per cento dei vescovi creando confusione per poi denunciare che nella Chiesa c’è confusione?

 

Ecco comunque indicata la giustificazione: Viganò ha scritto ciò che ha scritto, l’ha pubblicato mentre il Papa celebrava l’incontro con le famiglie a Dublino, ha sollecitato le dimissioni del Vescovo di Roma, senza paura di creare scandalo e divisione. Senza curarsi di ciò che il suo gesto avrebbe significato agli occhi della stragrande maggioranza dei fedeli, cioè un attacco al cuore della Chiesa con la messa in stato d’accusa del Papa. L’ex nunzio si è auto-assolto, perché convinto che tanto la confusione c’era già.

 

«Quindi - scrive ancora nel suo terzo “comunicato” - ho parlato. Perché è la cospirazione del silenzio che ha causato e continua a causare enorme danno alla Chiesa, a tante anime innocenti, a giovani vocazioni sacerdotali, ai fedeli in generale». Viganò dice di aver fatto ciò che ha fatto per il bene della Chiesa e si crede convinto che l’operazione politico-mediatica da lui messa in piedi, grazie a una rete organizzata di supporter già allenati quotidianamente dai loro pulpiti web e social a riversare sul Pontefice ogni tipo di accusa, sia giustificata. Anzi, dice che avrebbe temuto il giudizio divino se non avesse parlato, invece di temerlo per aver compiuto ciò che ha compiuto. Questa insistita auto-giustificazione mistico-religiosa rappresenta dunque l’elemento più nuovo da parte dell’arcivescovo che non retrocede di un millimetro rispetto all’operazione da lui orchestrata. In che cosa consisterebbe poi la “cospirazione del silenzio”? Nel fatto che la nomina episcopale, arcivescovile e infine cardinalizia di McCarrick furono un errore?

 

Quanto all’accurato riepilogo cronologico, è importante cercare di distinguere i fatti dalle interpretazioni forzate e dalle palesi falsità. Appare in tutta la sua evidente strumentalità il tentativo di addossare ogni colpa a Papa Francesco per la gestione del caso McCarrick. Per ottenere questo obiettivo - l’unico vero obiettivo fin dall’inizio evidente nell’intera operazione - Viganò è costretto a insistere su presunti dati di fatto che dati di fatto non sono, ma sono piuttosto fake news. La prima di queste riguarda la leggenda metropolitana secondo la quale il cardinale McCarrick sarebbe stato costretto a non viaggiare e a vivere ritirato durante il pontificato di Benedetto XVI, mentre durante il pontificato di Francesco avrebbe ottenuto «responsabilità e missioni». 

 

L’ex nunzio negli Stati Uniti e i suoi sostenitori continuano a ripetere questa bugia fingendo di non vedere la mole di documentazione - reperibile da chiunque - che dimostra il contrario: McCarrick non ha mai smesso di viaggiare, di girare il mondo, di svolgere missioni (mai per conto della Santa Sede) incontrando capi di Stato e leader religiosi in Africa, Medio Oriente, Asia. E questo durante tre pontificati, e anche dopo aver ricevuto istruzioni o raccomandazioni (mai trasformatesi in vere e proprie sanzioni) che lo invitavano a smettere e a vivere ritirato. Viganò lascia intendere che Francesco abbia cambiato le istruzioni (mai obbedite) di Benedetto, e anche questo è falso. È vero invece che, al contrario del suo predecessore Pietro Sambi, proprio Viganò da nunzio apostolico a Washington non è apparso così sollecito nell’insistere con McCarrick perché si fermasse. Hanno fatto il giro del mondo le immagini di Viganò che nel 2012 (ancora regnante Papa Ratzinger) si complimentava con il cardinale statunitense e lo salutava affettuosamente con un bacio sulla guancia. 

 

La strumentalità dell’operazione sta proprio nel voler mettere in stato d’accusa, chiedendone le dimissioni, l’unico Pontefice che ha davvero sanzionato - e in modo pesantissimo - McCarrick, quando è stata ritenuta fondata (ancora con il processo canonico non concluso) l’accusa di aver abusato di un minore, emersa per la prima volta nel settembre 2017. Pensare che, anche considerando credibili i ricordi dell’ex nunzio, l’aver detto al Papa una sola frase sul passato dell’ultraottantenne (e già dimissionato da sette anni) cardinale McCarrick, senza aver portato o spedito in seguito alcun appunto scritto e senza aver comunicato alcun elemento di denuncia o segnalazione nuova, basti per chiedere le dimissioni di un Pontefice, sta a indicare a che punto si è dissolta la coscienza di ciò che la Chiesa è.

 

Un altro punto che viene fatto passare ormai per assodato, senza mai esserlo stato davvero, è il ruolo di kingmaker che McCarrick avrebbe avuto in alcune nomine episcopali negli Stati Uniti. Viganò lo ripete, come già prima di lui avevano fatto siti e blog che oggi sostengono l’operazione, senza portare un elemento di prova a sostegno di questa tesi. Per di più, l’ex nunzio negli Stati Uniti dà per assodato che certe nomine ad alcune importanti sedi nordamericane abbiano segnato un cambiamento nella dottrina della Chiesa sul tema dell’omosessualità e della pedofilia. Ma anche questo è palesemente falso. Tanto più che Viganò dimentica due dati incontrovertibili: il primo è che ogni Pontefice, una volta eletto, ha deciso, per determinate nomine e sedi episcopali, di non seguire sempre e comunque le indicazioni del nunzio o delle Conferenze episcopali. E poi che i due cardinali statunitensi promossi da Francesco e finiti nel mirino di Viganò, Blase Cupich di Chicago e Joseph Tobin di Newark, non sono diventati vescovi e arcivescovi durante l’attuale pontificato, ma sotto i due Papi precedenti.

 

Altrettanto discutibile è l’insistenza concertata con la quale i sostenitori di Viganò seguono l’ex nunzio nel presentare quello dell’omosessualità del clero come il problema che sta all’origine degli abusi sessuali sui minori. Teoria non vera, perché ogni abuso sessuale su minori o adulti vulnerabili da parte di sacerdoti è prima di tutto un abuso di potere clericale e un abuso di coscienza.

 

Infine, nel terzo “comunicato” Carlo Maria Viganò mette il dito nella piaga delle sottovalutazioni che hanno portato a nominare McCarrick cardinale e poi a non sanzionarlo con maggiore determinazione. Si tratta di un problema che riguarda il passato e il processo di selezione dei vescovi. Giovanni Paolo II in 27 anni di pontificato ne ha nominati migliaia, e tra questi c’è stata anche qualche “mela marcia”. Basta citare i nomi dei cardinali Hans Hermann Gröer, Patrick O’Brien e lo stesso McCarrick; oppure i casi degli arcivescovi Juliusz Paetz e Jozef Wesolowski, solo per citare alcuni tra i più eclatanti. I Papi non sono infallibili quando designano un nuovo vescovo o un cardinale sulla base delle informazioni a disposizione in quel momento. La santità di Karol Wojtyla non è messa in discussione da alcune delle scelte storiche che ha fatto, discutibili e discusse come lo sono quelle di ogni Vescovo di Roma, e la canonizzazione del Papa non dovrebbe significare anche l’aureola per il suo entourage, per i suoi collaboratori, e per le loro scelte. 

 

Come pure sarebbe sbagliato, altrettanto sbagliato, puntare il dito su Papa Benedetto - il grande iniziatore di una lotta senza quartiere al fenomeno della pedofilia clericale, con scelte difficili e coraggiose - per non aver sanzionato più duramente McCarrick dopo averne accettato le dimissioni dalla diocesi nel 2006. Non essendoci in quel momento segnalazioni di casi di abuso su minori (la denuncia contro il cardinale relativa a questo è arrivata, come già detto, solo nel 2017), e trattandosi di un porporato ormai emerito, la scelta dei collaboratori di Papa Ratzinger è stata quella di cercare di convincerlo a vivere ritirato e a non viaggiare. Senza agire più duramente di fronte alla palese disobbedienza dell’interessato. Allo stesso modo appare in tutta la sua strumentale enormità il tentativo di mettere in stato d’accusa Francesco, che è arrivato al Soglio pontificio quando la questione McCarrick era considerata chiusa. La successiva denuncia per l’abuso su un minore ha riaperto il caso e il Papa ha agito, con una durezza che nella Chiesa non si registrava da 91 anni, arrivando a togliere la porpora all’arcivescovo emerito di Washington.

 

Ciò significa allora che tutto, nella gestione del caso, è stato condotto al meglio? Ovviamente no. Il Papa, che nel caso del Cile ha riconosciuto una sua parte di responsabilità nel non aver dato credito alle accuse delle vittime di padre Karadima circa il coinvolgimento del vescovo Barros, ha annunciato su McCarrick un’inchiesta approfondita. Ma la soluzione non sta certo nel dar ascolto a coloro che si ergono grandi accusatori, a chi si auto-investe della missione di giudice supremo, a chi si accanisce nello scovare le pagliuzze negli occhi altrui dimenticandosi della trave conficcata nel proprio. La Chiesa non può trasformarsi in un grande tribunale, lacerato da potenti lobby politico-mediatiche che vorrebbero dettarle l’agenda. Servono, non c’è dubbio, procedure migliori per nominare i vescovi e una selezione più accorta nei seminari arrivando a ordinare preti soltanto uomini che siano in grado di vivere il celibato, anche se gli scandali ci saranno ancora perché il peccato, finche durerà il mondo, non sarà mai estirpato. Ma serve innanzitutto e soprattutto riscoprire l’essenziale del messaggio cristiano, e cioè che la Chiesa non si fonda sulla bravura dei suoi pastori o dei suoi membri - dal Papa fino all’ultimo fedele - né è salvata dalle best practices aziendali di chi la confonde con una multinazionale. Si salva e annuncia il Vangelo se coloro che ne fanno parte guardano a un Altro, riconoscendosi fragili peccatori bisognosi di misericordia infinita. Tutti, dal Papa fino all’ultimo fedele.

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