«Da quando ho avuto la fortuna di poter portare qui mia figlia e sperare che si salvi, visto che da noi in Siria non poteva essere curata, i momenti di sconforto non sono stati pochi. Così ogni mattina, quando potevo, mi venivo a sedere nel giardino, e piangevo; poi arrivavano tante persone, per le più varie ragioni. Ora dove ho pianto tante volte c’è la baita del silenzio, e quando potrò andrò lì, a pensare a mio marito, all’altro mio figlio, al mio Paese, a pregare per loro ma anche per gli altri Paesi sconvolti dalla guerra.» Non sono stati interventi di forma i tanti discorsi pronunciati nella sede dell’Associazione Kim, dal nome di uno dei piccoli eroi di Kipling, in occasione dell’inaugurazione della baita del silenzio e della preghiera, una baita di legno nel cuore dei giardini di questa Onlus che si occupa di alloggiare, nutrire e curare bambini gravemente malati di tutto il mondo, dando a loro e alle loro madri i servizi necessari, dal biglietto all’alloggio e alle cure sanitarie e ospedaliere necessarie auspicabilmente a guarire e così poter tornare a casa. Ma dei tanti discorsi di religiosi e operatori umanitari che hanno riempito di senso l’affollato incontro nella sede dell’associazione è stato quello della giovane siriana Roua a toccare i cuori di tutti. Lei, come tutte le altre, dopo aver seguito l’iter amministrativo per sé e la figlia per ottenere il permesso di soggiorno, non può non pensare ai parenti che non vede da mesi, mentre segue qui le cure di sua figlia. Un luogo dove raccogliersi, pensare, pregare, era importante. E l’importanza di questo piccolo passo avanti nell’assistenza a lei e tante altre l’ha indicato con il richiamo a quelle lacrime che hanno bisogno di un luogo. L’apprezzamento, arrivato per iscritto, di Papa Francesco, che ha ricordato il «silenzio orante della Sacra Famiglia», ha dato il giusto riconoscimento ai promotori, ai finanziatori -un’associazione giapponese- e a chi ha pensato di aprire questo spazio di silenzio e preghiera a tutti gli ospiti delle strutture presenti nel parco romano Bellosguardo, sulla via Aurelia. 

Questa iniziativa che vuole facilitare la cura di bambini gravemente malati senza limiti geografici, ci sono ospiti giunti dal Venezuela come dalla Libia e tanti altri Paesi, fa i conti con i costi, con le difficoltà burocratiche, puntando poi sull’importanza della presenza delle madri, un valore evidente non solo per i piccoli malati e che quando possibile trovano l’aiuto gratuito dell’ospedale Bambino Gesù. Quelle madri raccolte nel centro sembravano così il volto di un’altra globalizzazione possibile, solidale e transculturale, affettuosa, gentile, forte, operativa. Soffermandosi con i promotori dell’associazione non è difficile capire che il mare di richieste d’aiuto di questo tipo è diventato ormai un’oceano, e proprio la Siria e il Venezuela probabilmente sono le spie più evidenti di conflitti che ormai coinvolgono direttamente e drammaticamente settori sempre più ampi dell’infanzia d’oggi. Nell’attesa della guarigione, o nel timore di un esito infausto, nel ricordo di casa, sotto la pressione del desiderato rimpatrio, questa baita del silenzio e della preghiera per tutti, di qualsiasi credo siano, era proprio una prima necessità, non un lusso. «Siediti accanto al silenzio e sentirai la voce di Dio», con questa citazione di un mistico orientale si è tentato di spiegare uno dei valori del silenzio in questo tempo urbano sempre più rumoroso, con voci ed urla che sovente inquietano. «Siamo qui, tutti insieme, dietro questo tavolo, allineati l’uno accanto all’altro, perché siamo stati convocati da dei bambini. E’ importanti allora ricordare che infanzia significa che non parla, forse nel senso che ancora non sa parlare, oppure nel senso di zittita, visto che spesso ai bambini si intima il silenzio, parlerete quando sarate grandi, gli si dice sovente», ha fatto rilevare il pastore evangelico Enrico Benedetto, seduto tra l’imam Abdoul Bassite e don Pino Cangiano, coordinatore nazionale dei cappellani della Polizia di Stato. «In questi ventuno anni- ha sottolineato il presidente dell’associazione, Paolo Cespa- ci siamo progressivamente trasformati in un luogo d’incontro e confronto. Di lingue, di culture e di pensiero. E di servizio: per bambini e adulti che affrontano condizioni di grave emergenza. Il dolore di una perdita, il logorio psicologico di una lunga terapia che conduce lontano da casa, dalla propria famiglia, dal proprio Paese, in un contesto di enorme diversità. Un rischio che fa paura, tanto che a volte non si trova la forza di partire.» Il suo racconto ripercorre 314 storie, quelle dei bambini accolti in questo ventennio, senza dimenticare gli altri 200, che non sono arrivati perché scomparsi nell’attesa dei documenti, o dopo il mancato rilascio del visto d’ingresso, o per l’impossibilità di curare patologie a uno stadio così avanzato, o per la morte di un genitore. 

L’idea che ora le tante madri, o altre congiunte, arrivate qui con bambini così malati, e lo stesso personale in servizio, abbiano un luogo per vivere il silenzio e la preghiera, aiuta a sentirsi cittadini, almeno qui, di un mondo migliore. 

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