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Sergio Marchionne scarica Matteo Renzi e la sinistra

Andrea Tempestini
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Evviva la sincerità di Marchionne. Lasciamo perdere l'Alfa Romeo, che dice tornerà a essere come la Ferrari, una macchina da corsa. Il genio che ha trasformato la Fiat (oggi Fca) in una macchina da soldi merita di essere ascoltato sulla politica. Ha detto ieri: «Credo che Renzi abbia perso qualcosa da quando non è più premier, ma è normale. Se si sia comportato bene o meno non saprei dire. So che la sinistra sta cercando di definirsi come identità. È piuttosto penoso, spero che si ritrovino». Continua: «Non so nemmeno se (Renzi) si ricandida, mi sembra che Berlusconi si ripresenti. Comunque Fca è totalmente filo-governativa, si allinea a tutti quelli che si presentano. Io vorrei qualcuno che gestisca il Paese e una tranquillità economica nel contesto in cui operiamo. Sono cose essenziali». Poi ci si stupisce se Berlusconi propose Marchionne come candidato premier. Il manager in pullover ha capito tutto, legge nella testa del popolo. Allora, dopo che Silvio aveva usato Libero come altoparlante, disse che non ci pensava neanche, ma aggiunse che Berlusconi era «un grande». Infatti: ci sarebbe bisogno di uno che sistemi l'Italia come a Sergio è riuscito alla Fiat. Alla luce delle frasi di cui sopra sulla politica italiana, è chiaro come il sole che Berlusconi è il più intelligente del mazzo e ci aveva azzeccato: Marchionne è il migliore, ha capito tutto di come vanno le cose in Italia, e che cioè non ci si capisce niente. E proprio per questo in un casino di tali proporzioni, la stabilità, che è il bene più grande che può dare la politica a un Paese, è un miraggio. E lui non a caso sta spostando le tende e anche le tendine altrove, in attesa che qualcosa si stabilizzi, cioè - temiamo - mai. Farà investimenti, assicura: ma lo dice per amor di bandiera e di marketing, perché dire di qualcosa che è «italiano» fa immagine in Cina e in America. Ma parbleu: via da questa pazza politica italiana. Lui aveva sperato in Renzi, lo ha detto mille volte, fino a sostenere il «sì» al referendum e a dichiarare formalmente a Chicago, il 31 marzo dello scorso anno: «In Italia voterei Renzi». Il premier di Rignano dava qualche certezza, comandava, se non altro ci provava a fare riforme perché l'Italia, disse allora Marchionne, «deve liberarsi di un lungo fardello di inefficienze». Ha perso? Ciao, Matteo, mi spiace, ma la sconfitta ti ha spompato. Quanto al resto del panorama. Di sicuro il peggio del peggio sta a sinistra, dove il caos italiano è portato al diapason: nella nebbia generale, lì la visibilità è zero. Berlusconi? Nessun giudizio. Ma va bene che Silvio si candidi... A Sergio basta che salti fuori un governo. Ma quale sarà, chissà chi lo sa, e forse non ci sarà. Nel dubbio dichiara di sostenere tutti quelli che si candidano... Si rilegga, dice così. Leggo tra le righe, con un'operazione forse temeraria: auspica un governo Renzi-Berlusconi, sono i due soli nomi che ha fatto, e che tratta con una certa simpatia. Ma non crede sia facile neanche questa prospettiva. I lettori (e Marchionne) mi scuseranno se ho tradotto in soldoni le parole chiare ma prudenti pronunciate dalla testa fina italo-canadese. L'ho chiamato genio perché ha salvato fuori la Fiat dal sicuro fallimento trasformandola in una cornucopia. Lo ha fatto non esibendo slogan altisonanti e promesse in carta d'argento. Ha insegnato un metodo che la politica in tutti questi anni di speranze di cambiamento post 1992 ha ignorato e ora paga con il disgusto della gente comune, che - diciamolo - hanno ragione i sociologi a definire «rancorosa». Per trasformare la baracca con orto marcio in un palazzo dotato di parchi fioriti, ci si è buttato dentro, ha pettinato il ginepraio di capi e capetti, divelto i fichi improduttivi, selezionato architetti e giardinieri in base al merito invece che al blasone dei due o tre cognomi, o alle misure di reggiseno. Soprattutto - pur investendo in stabilimenti siti nella Penisola - per salvare l'azienda torinese ne ha separato i destini dal suolo patrio, a costo di separare le labbra della ditta dalla mammella italiana da cui aveva succhiato per tutto un secolo. Peggio della Fiat - ha ragionato il manager emigrato in Canada dall'Abruzzo - c'era solo l'Italia. Anche per colpa degli Agnelli, aggiungiamo noi, certi di interpretare i pensieri di tutti, anche quelli del loro successore e soccorritore. Poi ha sperato in Renzi. Ha creduto che con tutta la sua guasconeria riuscisse il suo progetto di garantire con certezza un governo il giorno dopo le elezioni, magari con idee persino liberali e sburocratizzanti. Sbagliato. Ora si trova un Renzi vagamente rimbambito dai colpi subiti, e un Berlusconi che si ripresenta. E Marchionne si pone un unico problema, con sincerità pragmatica: che cosa giova alla sua fabbrichetta multinazionale, la Fca? Un governo, dateci un governo. Noi speriamo contro ogni speranza che vinca il centrodestra. Ma non accadrà. Arriverà primo. Ma in Italia non basta arrivare primi per vincere e governare. Il resto è nebbia. di Renato Farina

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