Romero, vita di un vescovo ‘profeta’

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In occasione della canonizzazione del vescovo Romero, ribattezzato il vescovo dei poveri, pubblichiamo questo scritto dello scrittore e professore lucchese Luciano Luciani, che ripercorre la vita del prelato.

24  marzo 1980, trentotto anni fa. Un pomeriggio inoltrato a San Salvador, capitale del più piccolo e tormentato  paese del martoriato Centroamerica. Nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza, una sorta di Cottolengo del Salvador, monsignor Oscar Arnulfo Romero celebra la messa in memoria della madre morta di un amico. Una cerimonia semplice. Sono presenti poche persone, i familiari della donna, le suore, le infermiere, i pazienti dell’hospi-talito.
L’arcivescovo legge un passo tratto dalla Lettera ai Corinti (15, 20-28): “…E’ necessario che Cristo regni fino a che non abbia messo sotto i suoi  piedi tutti i nemici. L’ultimo nemico a essere distrutto sarà la morte… affinché io sia tutto in tutti”. Poi l’arcivescovo passa al celeberrimo Salmo XXIII: “ Il Signore è il mio pastore… Anche se andassi per valli tenebrose non temo alcun male, perché tu sei con me; il tuo bastone e il tuo vincastro mi rassicurano… Io abiterò nella casa del Signore per tutta la durata dei miei giorni”.
Da Giovanni 12, 23-26 la lettura del Vangelo: “Se il granello di frumento, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto…” poi una breve omelia: “…chiunque per amore di Cristo dà se stesso nel servizio degli altri, vivrà, come il granello di frumento che muore, ma solo in apparenza. Se non muore, rimane solo… Soltanto distruggendosi esso produce il raccolto”. Quindi una lunga citazione dalla Gaudium et Spes: “…l’attesa di una nuova terra, non deve indebolire ma, anzi, stimolare il nostro sforzo di coltivare questa. Da qui cresce l’organismo di una nuova famiglia umana, un organismo che già fin d’ora può farci presagire la nuova era…”.
L’arcivescovo, allora, comincia a parlare a braccio invitando tutti a prendere esempio dalla vita della donna morta: “Questa Santa Messa, questa Eucaristia, è un atto di fede. Nell’ottica cristiana,in questo momento la controversia è risolta per merito del corpo del Signore, che ha offerto se stesso per la redenzione del mondo, e in questo calice il vino è trasformato nel sangue che fu il prezzo della salvezza. Possa questo corpo immolato e questo sangue sacrificato per gli uomini nutrire anche noi, cosicché possiamo dare il nostro corpo e il nostro sangue alla sofferenza e al dolore…come Cristo, non per noi stessi ma per dare idee di giustizia e di pace al nostro popolo. Uniamoci allora, intimamente nella fede e nella speranza, in questo momento di preghiera per Dona Sarita e per noi stessi”.
A quel punto lo sparo.
Monsignor Romero colpito al torace crolla a terra. Il sangue arrossa i paramenti sacri. I presenti, subito accorsi, lo adagiano su un piccolo furgone. In cinque minuti arriva all’ospedale Policlinica. È privo di sensi, ansima, soffoca nel suo stesso sangue. Medici e soccorritori tentano in extremis una trasfusione. Troppo tardi. Muore nel giro di pochi minuti.
Con lui vescovo, profeta ed ora martire, si spegne una voce tanto moderata nei toni quanto radicale nei contenuti, che aveva aiutato il risveglio della coscienza non solo religiosa, ma politica e civile dei campesinos e di tutti gli oppressi salvadoregni. Cadeva un uomo-simbolo, un religioso di frontiera, punto di riferimento per tutta quella chiesa latino americana decisa a compromettersi, fino in fondo, con il Vangelo e con la storia nella difesa dei diritti umani: di tutti gli uomini certo, ma in maniera preferenziale di quelli più deboli, sfruttati, emarginati.
Vita e morte di un vescovo profeta. Ma chi era monsignor Romero? Era nato nel 1917 a Ciudad Barrios, un paesino di poche anime alla frontiera con l’Honduras. Prima seminarista a San Miguel, fu poi studente di teologia a Roma presso la prestigiosa Università Gregoriana, dove venne ordinato sacerdote nel 1942. La sua attività di pastore di anime era iniziata dapprima in qualità di parroco; poi, era stato nominato direttore del Seminario interdiocesano di San Salvador. Vescovo ne 1967, nel 1970 era divenuto “ausiliare” dell’arcivescovo della capitale, mons. Luis Chavez y Gonzales. A questo punto della sua esistenza, monsignor Romero è un vescovo di grande rigore morale, di straordinaria rettitudine, ma è un conservatore. Giudica infatti negativamente l’impegno della Chiesa per la giustizia sociale: lo interpreta come una riduzione indebita della fede a fatto sociologico, ne teme la politicizzazione e l’impoverimento spirituale. Direttore di “ Orientaciòn “, il giornale diocesano, polemizza aspramente con i laici e i sacerdoti che si rifanno a Madellin e in qualità di segretario della Conferenza Episcopale salvadoregna, fa pesare tutta la sua autorevolezza per ritardare l’assimilazione di quanto la Chiesa latino americana a Medellin era andata elaborando. Mons. Luis Chavez, arcivescovo di san Salvador, è costretto ad inviarlo in una diocesi periferica per sottrarlo alle polemiche con i settori più radicali della società e della Chiesa salvadoregna. È nominato vescovo di Santiago del Maria, ma poco tempo dopo, quando il suo predecessore, a causa dell’età avanzata, rinuncia alla carica, Romero è chiamato a prendere il suo posto.
Gli ultimi mille giorni. La sua nomina ad arcivescovo di San Salvador è interpretata da tutti come una decisione che mira a  contrastare le posizioni moderatamente avanzate assunte in passato da quella diocesi. Quando nel febbraio del ’77 Romero assume la sua nuova carica, tutta la stampa legata all’oligarchia manifesta la sua soddisfazione. La conversione di Romero doveva realizzarsi solo tre settimane più tardi quando un suo collaboratore, il gesuita padre Rutilio Grande, un parroco di campagna che da cinque anni aiutava il risveglio della coscienza dei campesinos, veniva assassinato per strada da uno squadrone della morte. Romero trascorre tutta la notte in una veglia di preghiera a fianco di migliaia di contadini. L’indomani, con fermezza, rifiuta la prassi dei colloqui segreti tra i vescovi e il presidente della repubblica e formula al governo una durissima richiesta di spiegazioni. Dopo aver consultato i suoi sacerdoti, sospende l’attività delle scuole cattoliche e con una solenne liturgia celebra la morte di padre Rutilio, il cui funerale si svolge nel parco della cattedrale, tra la gente. Dirà più tardi Romero per spiegare la sua conversione: “ È stato il sangue di padre Rutilio Grande. Altre forze mi avevano separato da voi. Ma adesso siamo di nuovo insieme “. È l’inaugurazione di un nuovo stile pastorale che si fa ancora più esplicito con la lettera pastorale del 6 agosto 1977: “… C’è persecuzione contro la Chiesa quando non le si permette di annunciare il Regno di Dio con le sue conseguenze di giustizia, pace, amore e verità; quando non si tollera la denuncia del peccato del nostro paese che consiste nel lasciare gli uomini nella loro miseria: quando non si rispettano i diritti dei salvadoregni e quando gli scomparsi, i morti, i calunniati continuano a aumentare…”.

Da questo punto in poi Romero rifiuta anche i simboli esteriori del potere: la Cadillac con autista per i suoi spostamenti; il lussuoso palazzo episcopale nel quartiere bene di San Salvador. Sceglie invece di alloggiare nel piccolo ospedale della Divina Provvidenza, insieme con i malati e le suore.
Nel giro di poco più di un anno la figura di Romero e il suo impegno a favore dei settori meno favoriti della società, cominciano ad essere conosciuti e apprezzati anche aldilà degli ambienti culturali e religiosi latino americani: nel 1978 l’università statunitense di Georgetown gli conferisce la laurea honoris causa. Il 23 novembre dello stesso anno il Parlamento britannico lo candida al Premio Nobel per la pace per l’anno seguente. Il 2 febbraio 1980 anche la prestigiosa Università di Lovanio lo insignisce della laurea honoris causa: durante la cerimonia il rettore lo presenta come una delle più rilevanti figure della Chiesa latino americana. Così si esprime in quell’occasione il vescovo salvadoregno: “ Il mondo dei poveri, con caratteristiche sociali e politiche assai concrete, ci insegna dove deve incarnarsi la Chiesa per evitare la falsa universalizzazione che termina sempre con la connivenza con i potenti. Il mondo dei poveri ci insegna come deve essere l’amore cristiano, che intende certamente la pace, ma che smaschera il falso pacifismo, la rassegnazione e l’inattività… Crediamo che questa sia la maniera di conservare l’identità e la trascendenza stessa della Chiesa. Inserirei nel processo socio-politico reale del nostro popolo, giudicare di esso secondo il giudizio del popolo povero, e dare impulso a tutti i movimenti di liberazione che conducono realmente alla giustizia della maggioranza e alla pace per la maggioranza”. È il passaggio dalla predicazione della verità astratta ad una testimonianza di verità concreta: è la scoperta positiva, della politica. Ancora pochi giorni prima del suo brutale assassinio, l’Azione Ecumenica svedese gli attribuisce il Premio per la Pace 1980. Negli ultimi cento giorni dei suoi mille da arcivescovo del San Salvador, monsignor Romero con semplicità e chiarezza esprime in maniera radicale la posizione della propria Chiesa: “Non è la Chiesa a mettersi contro il governo – accusa che viene mossa a tutte le chiese vive dell’America latina – ma è il governo che si mette contro il popolo, e la Chiesa è con il popolo” (15 febbraio 1980).
In una lettera al presidente degli Stati Uniti Carter denuncia le pesanti ingerenze Usa nel Salvador. Chiede ai soldati di disobbedire agli ordini ingiusti dei loro ufficiali: “Fratelli siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli campesinos… e davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice non uccidere…nessun soldato è obbligato ad obbedire ad un ordine contro la legge di Dio… una legge immorale nessuno è tenuto a rispettarla… è ormai tempo che voi recuperiate la vostra coscienza e che obbediate prima alla vostra coscienza che agli ordini del peccato. In nome di Dio, allora, e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono fino al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio: cessate la repressione!”.
Il 24 marzo alle 18,30 cade assassinato durante la celebrazione della messa. Dietro questa morte annunciata, le responsabilità del generale Mediano, fondatore di Orden, l’organizzazione paramilitare dell’oligarchia agraria, e quelle del maggiore D’Aubuisson, un estremista di destra già allora tristemente noto in tutto il Salvador.

Luciano Luciani

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