La politica estera americana e il ruolo di “leader del mondo”

di Dario Rivolta *

Anche a un sincero atlantista come il sottoscritto nutre sempre più spesso dubbi sulla saggezza e sulla coerenza delle scelte fatte dai nostri alleati americani nella loro politica estera. Che gli Usa siano lo Stato dominante nel mondo, ci piaccia o no, è la pura verità ed è comprensibile che vogliano continuare a esserlo, a qualunque costo. Forse imprudentemente, lo hanno perfino ufficializzato in un Documento di Strategia per la Sicurezza Nazionale presentato a suo tempo dal presidente George W. Bush.
Pur accettando con comprensibile riluttanza quanto sopra, chi oggi nel mondo potrebbe concretamente insidiare il potere degli Stati Uniti? Chi potrebbe diventare un vero pericoloso antagonista in grado di mettere a rischio la sua supremazia militare e monetaria (con tutto quello che ciò implica) fino a compromettere il benessere del cittadino medio americano?
Di sicuro non Paesi di piccole dimensioni e senza ambizioni planetarie quali, ad esempio, la Svizzera, il Kuwait, l’Italia o altri simili. Nemmeno un Paese efficiente e compatto come la Germania potrebbe, da solo, ambire a sostituire il ruolo che gli Usa hanno assunto nel mondo. Occorre dunque guardare altrove… forse verso l’India? Si tratta di un miliardo e mezzo di individui e la loro massa potrebbe impensierire. Tuttavia, l’enorme disparità economica tra le varie zone del Paese, l’incredibile numero di lingue parlate nel territorio, la conflittualità culturale e politica tra ceti e regioni rendono impossibile, per almeno un altro secolo ancora, pensare a Nuova Delhi come riferimento per altri popoli nel mondo. Senza contare che la cultura indiana dominante è infinitamente lontana perfino dal solo proporsi quel ruolo.
Allora… la Russia? Qualcuno a Washington certamente lo pensa e lo dimostra l’acrimonia di molti settori dell’establishment americano contro quel Trump che aveva promesso una collaborazione non conflittuale con Mosca. Anche quest’ipotesi, però, ci sembra un’ipotesi poco credibile. Anche qualora Mosca lo pensasse, pur essendo il vecchio “orso” potenzialmente molto ricco, la scarsa densità di popolazione, la mancanza di naturali vie interne di comunicazione, la tradizionale scarsa produttività del lavoratore medio e l’inefficienza della burocrazia non gli consentono di aspirare al ruolo di guida unica del pianeta con una minima chance di successo. Ci provò (almeno in duopolio) l’Unione Sovietica, e abbiamo visto come è finita.
Sarebbe inutile analizzare uno per uno tutti gli altri Stati del mondo perché uno solo può realmente aspirare a sostituire il ruolo egemone degli Stati Uniti: la Cina.
Un miliardo e trecento milioni di individui, una cultura del lavoro da far invidia a qualunque stakanovista, una propensione storica a considerarsi “il centro del mondo”, una scarsa attitudine a integrarsi con altre popolazioni, un’abitudine, infine, ad avere una classe politica che pensa in termini di decenni e non di anni: tutto questo fa della Cina un Paese che, date le giuste condizioni, potrebbe legittimamente sperare di “guidare” il pianeta.
Nella sua storia, e con la breve parentesi dei domini coloniali europei, ha sempre esercitato un’egemonia su tutti i Paesi vicini e lo ha fatto spesso senza bisogno di guerre infinite. Considerati i limiti agli spostamenti consentiti dai mezzi di allora, le varie dinastie cinesi ricevevano contributi ed esercitavano potere in ogni dove raggiungibile dalle loro navi, e tutti i regnanti di quelle zone dovevano comunque fare i conti con il volere dell’Imperatore di Pechino. Con confuciana saggezza, la Cina di allora (e di oggi) preferiva esercitare il “soft power” ovunque non fosse indispensabile ricorrere a maniere più forti, ma l’obiettivo era comunque di imporre il dominio cinese ovunque fosse utile per garantire il benessere della corte e del popolino.
Usciti finalmente dalla povertà tipica dei sistemi comunisti, l’enorme e rapido sviluppo dell’economia cinese ha impressionato il mondo e oggi tutti osservano con preoccupazione il suo espandersi finanziario ed economico su tutti i continenti. L’Africa è già terra di conquista e le materie prime necessarie alle industrie cinesi vi sono accaparrate con facilità. In cambio si offrono finanziamenti facili che, a Pechino lo si sa, non verranno mai restituiti in toto. Ma non importa: le clausole dei vari contratti di finanziamento stabiliscono che, in mancanza di ri-pagamento del debito, la proprietà delle opere realizzate diventerà cinese e questo si mostrerà utile, guarda caso, per le infrastrutture stradali e portuali e di tutto ciò che vi è connesso. Anche in altri continenti la “generosità” finanziaria cinese approfitta delle difficoltà economiche locali per acquisire spazi, influenza e comprare società ricche di know how. Lo si vede in Europa, in America del Sud e negli stessi Stati Uniti. Recentemente alcuni governi hanno cercato di porre limiti a queste presenze ingombranti giudicate “pericolose”, ma in molti casi è troppo tardi. Poiché gran parte del territorio cinese è costituito da deserto, anche l’acquisto di terre coltivabili utili a garantire il nutrimento dell’immensa popolazione (oggi non più oggetto della politica del “figlio unico”) è già stato previsto dai lungimiranti nuovi “mandarini”. Tutte queste iniziative hanno bisogno della garanzia di libero accesso alle vie di transito e la marina militare di Pechino ha, conseguentemente, cominciato una vigorosa espansione nel Mare Cinese del Sud, blandendo o minacciando i recalcitranti governi che vantavano la loro sovranità sulle aree coinvolte. Per essere più “convincente”, la Cina ha aumentato i propri investimenti sia nell’aviazione sia nella marina ed ha sviluppato propri sistemi anche per la conquista dello spazio.
Questa politica espansiva era cominciata già qualche decina di anni orsono ma, per non mostrare troppo presto i propri veri obiettivi, ha sempre giocato un ruolo di under statement, adducendo la condivisibile volontà di un Paese povero di uscire dallo status di Paese “in via di sviluppo”. Solo da qualche anno a questa parte è diventato più difficile nascondere le vere intenzioni e i progressi militari sono resi pubblici. La stessa cosa è successa nel campo valutario, dove è stata resa esplicita la volontà di sottrarsi al peso del dollaro americano. È in questa luce che vanno letti sia i passaggi verso la parziale liberalizzazione del tasso di cambio dello yuan sia gli accordi per aumentare gli scambi in valuta locale con i Paesi BRICS e con altri. Ulteriori dimostrazioni di quale sia la strada imboccata dai cinesi sono la creazione della Banca Asiatica di Sviluppo (di cui la Cina è stata promotrice) e il gigantesco progetto di due nuove “vie della seta”, quella marittima e quella terrestre. Mentre a tutti i Paesi teoricamente coinvolti è difficile dire di no ad una proposta che promette (almeno sulla carta) ingenti investimenti e sviluppo locale, se veramente questa iniziativa sarà realizzata essa rappresenterà per Pechino qualcosa di più di una semplice ed enorme operazione economica: sarà il modo soft per imporre le proprie regole e la propria continua e ineludibile presenza, non solo commerciale. Di per sé, la “nuova via della seta” è un’eccellente progetto che segnerebbe il ritorno all’economia reale dopo l’ubriacatura di quella puramente finanziaria ma il problema è che il pilota rimarrà sempre e soltanto cinese.
Nessuno potrebbe affermare che gli americani non si siano accorti del pericolo dato da questo potenziale concorrente o che siano stati inerti. Obama, infatti, aveva pensato a come contrastare quell’avanzata: tra le altre, una risposta non cruenta attraverso il famigerato TPP. L’accordo Trans-Pacifico, di là dalle pure motivazioni commerciali, sarebbe servito a isolare anche politicamente la Cina almeno nell’area del Pacifico. Se finalizzato, in pochi anni avrebbe ulteriormente avvicinato tra loro gli Stati aderenti, favorendo i commerci e penalizzando chi ne era escluso, cioè Pechino. Trump, ritirandosi da quel trattato sembra non averne capito la valenza politica e pensava piuttosto di colpire la Cina attraverso limiti alle importazioni o nuovi dazi. Purtroppo per lui, dovette scoprire che l’economia americana è ormai legata a doppio filo con quella cinese e le sue minacce hanno cozzato contro la reazione delle aziende a stelle e strisce. Molte di loro dipendono dal mercato dei consumi cinese, ma altre, ancora più numerose, producono in America grazie ai semilavorati in arrivo da oltre oceano. Ha quindi dovuto fare marcia indietro e ora, dopo mille dichiarazioni contraddittorie, deve limitarsi a battagline di retroguardia per proteggere almeno la produzione interna di acciaio. Quanto all’espansione della marina cinese, sta cercando di mostrare i muscoli nelle acque del Mar Cinese del Sud, ma senza alcun risultato concreto.
C’è di più: se gli Usa considerano veramente la Cina quale il più temibile tra i possibili antagonisti al potere americano nel mondo, non ha spiegazioni razionali l’ostilità dell’establishment contro la Russia. Quest’ultima è la più grande riserva al mondo di materie prime (non solo gas e petrolio) ed è quello di cui la Cina abbisogna proprio per nutrire il proprio sviluppo industriale e, di conseguenza, politico.
Dopo un primo tentativo in direzione opposta, Obama seguì la stessa strada di Bush figlio: isolare e “contenere” la Russia cercando di acquisire alla Nato tutti i Paesi che la circondano. Cercò perfino di duplicare con l’Europa, senza riuscirci, l’accordo commerciale del Pacifico che, mentre là avrebbe dovuto isolare la Cina e, in questo caso, lo avrebbe fatto con la Russia. Davanti a quelle manovre, fu naturale per quest’ultima sentirsi colpita nei propri interessi vitali e reagire come e dove poteva, dando però il destro ai falchi americani per invocare (e ottenere) sanzioni di vario genere. L’obiettivo era ed è quello di metterla in ginocchio economicamente, magari sperando di provocare un cambio di regime. A proposito dell’efficacia di questo metodo, gli italiani che hanno studiato la storia ricordano come le sanzioni decise dalla Società delle Nazioni (sobillata da britannici e francesi) contro le ambizioni coloniali fasciste in Etiopia spinsero il riluttante Mussolini nelle braccia di Hitler (Churchill lo ammise nelle sue memorie). E purtroppo sappiamo come finì.
Gli americani stanno commettendo lo stesso errore. Riavvicinare la Russia alla Cina sembrava impossibile per motivi storici e culturali ma l’aggressività americana (ed europea) ha spinto Mosca verso Oriente. Qualche Solone di Washington continua a sostenere che il rapporto tra quei due Paesi non può essere duraturo a causa dei loro interessi geo-politicamente contrastanti. Tuttavia, che esso duri poco o tanto a Pechino basterà perché ciò che interessa, oltre alla sponda politica, sono le materie prime cui hanno già cominciato ad avere accesso. Non è un caso che la Russia abbia sbloccata la costruzione, rimandata più volte negli anni, di oleodotti e gasdotti che andranno verso est e non più soltanto verso l’Europa.
Nei confronti della Russia ci sembra notare un’altra contraddizione. Se l’obiettivo era quello di “contenerla”, perché le si è lasciato mano libera in Siria consentendole di stabilizzare la sua presenza nel Mediterraneo e garantirsi, in coabitazione con l’Iran, un controllo sul Medio Oriente per “meriti di guerra” nella stessa Siria? E, sulla stessa scia, perché fare i “puri democratici” con l’Egitto di al-Sisi aprendo alla rinascita di un legame virtuoso tra Mosca e Il Cairo? In seguito ci si è pentiti dell’abbandono praticato e si cerca di recuperare il rapporto perduto ma, intanto, Mosca è tornata in Egitto e sarà difficile recuperare l’esclusività precedente.
Non basta: come la mettiamo con la Turchia? Nessuno può negare che il “Sultano”, pur ondivago e inconcludente nella sua politica estera, stia giocando contemporaneamente su più tavoli. Dopo una rottura con Putin, si è ricreduto e ha allacciato con Mosca rapporti così buoni che non se ne ricordavano nel corso dei secoli. Le pressioni americane hanno fatto fallire il progetto di gasdotto Southstream che sarebbe stato estremamente utile all’Italia, ma sembra che non riescano ad impedire alla Turchia di procedere con quel Turkishsream che lo ha sostituito. Alla fine, il risultato per i rifornimenti europei sarà quasi lo stesso ma Ankara diventerà un hub ancora più potente di quanto già lo fosse prima, rubando il ruolo quasi simile che sarebbe toccato all’Italia. È stata una scelta lungimirante? Forse per gli americani non ci sarebbe niente di male (ma per l’Italia lo è) se la Turchia fosse almeno rimasto un membro affidabile della Nato, ma è forse un partner su cui contare quello che nega il transito delle truppe in guerra contro l’Iraq di Saddam Hussein? È un leale membro della Nato quello che compra armamenti dalla Cina e missili S400 dalla Russia? È un partner della lotta al terrorismo quello che ha lungamente finanziato i terroristi dell’Isis e se ne è ravveduto solo molto tardi? Dove sta la logica nella politica degli americani verso l’indisciplinato “socio”?
Infine, c’è un’altra situazione ove ci si aspetterebbe maggiore avvedutezza dal nostro amico americano: è la questione del Golfo.
Notoriamente in Medio Oriente si confrontano tre galli nello stesso pollaio: Arabia Saudita, Iran e Turchia. Ognuno di loro punta a un ruolo egemonico sull’intera area cercando di usare ogni mezzo e proponendosi come riferimento del mondo islamico. Turchi e sauditi si sfidano proteggendo gli uni i Fratelli Musulmani, gli altri i salafiti. L’Iran, pur senza disdegnare i sunniti di Hamas, cerca di mobilitare a suo favore le sparpagliate (fuori dell’Iran) comunità sciite. La politica americana in ogni parte del mondo era sempre stata quella di avere in ogni area strategica almeno due “amici” in contrasto tra loro e Obama aveva addirittura cercato di farli diventare tre, chiudendo con Teheran il lungo e travagliato periodo di contrapposizione. Un Iran rientrato nel mondo “normale” sarebbe diventato un ottimo contraltare ai partner turco e saudita, sempre meno sicuri. In Iran la normalizzazione avrebbe anche favorito con la Presidenza Rohani l’ascesa di gruppi riformatori, più disponibili verso l’occidente. Chiunque si fosse recentemente recato in Iran avrebbe notato che la maggioranza della popolazione, e non solo quella cittadina, ha oramai le scatole piene di Ayatollah corrotti e di Pasdaran che monopolizzano l’economia. La possibile apertura al mondo aveva galvanizzato giovani e meno giovani facendoli sperare in un futuro, magari pur sempre islamico ma non più assolutista e invadente. Tornare a criminalizzare l’Iran trova forse la sua ragione nel sostegno che quel Paese darebbe ai terroristi? Sbagliamo ricordando che i criminali delle torri gemelle erano cittadini del “fedele alleato” saudita? Quali sono gli attentati avvenuti in Europa, o in Usa, i cui artefici siano stati identificati come sciiti iraniani? È molto più facile trovare i nostri attentatori tra i salafiti o, comunque, tra estremisti di qualche frangia sunnita. Chi finanzia le madrasse estremiste disseminate in Europa? Di quale confessione sono i criminali che urlano “Allah Akbar” mentre massacrano poveri innocenti? Eppure, forse per vendere un po’ di armi o/e per accontentare Israele, Trump ha deciso di fare una scelta drastica contro Teheran: ha riaffermato il totale sostegno a Riad e minacciato di denunciare l’accordo il (cosiddetto 5+1) raggiunto dal suo predecessore. Ha perfino avallato (forse senza capirne tutte le conseguenze) l’isolamento del Qatar dimenticando che proprio lì sta la più grande base militare americano nel Golfo. Il risultato di tutto ciò? In Iran stanno riprendendo fiato i Pasdaran e Rohani è costretto ad inseguirli sulla loro strada per non farsi mettere fuori gioco. La questione curda ha riavvicinato l’Iran con la Turchia e Baghdad resta sempre sotto il controllo di Tehran. E’ ormai assodato: l’invasione dell’Iraq fu un errore strategico ed è più che comprensibile cercare oggi di non rimanere su troppi fronti con gli “stivali sul terreno”. E allora, perché aprirne di nuovi?
Ecco alcune domande che vengono alla mente quando si guarda alla politica estera americana. Da semplici osservatori e nulla più ammettiamo che è ben possibile che ci sfuggano molte delle variabili conosciute solo da chi sta nella sala di comando e quindi non ci sentiamo di formulare qualcosa di più che avanzare dubbi. Comprendiamo anche che, spesso, alcune scelte di politica estera sono determinate da problemi e pressioni insopprimibili che nascono dalla politica interna e questo è particolarmente evidente nella gestione Trump. Tuttavia, se i nostri dubbi non sono del tutto peregrini, la conclusione che dobbiamo trarne è che o gli Stati Uniti ripenseranno drasticamente tanti dei loro comportamenti oppure hanno ragione quelli che sostengono avere la parabola americana cominciato la propria fase discendente.

* Già deputato, è analista geopolitico ed esperto di relazioni e commercio internazionali.