Usa. Russiagate: Bannon, ‘nella Trump Tower incontri sovversivi’

di Guido Keller

Corea del Nord e Iran non distolgono negli Usa l’attenzione mediatica sul Russiagate, ed anche oggi sembra aprirsi un nuovo capitolo dopo dello scandalo che potrebbe con il tempo costare al presidente Donald Trump quantomeno l’avvio del processo di impeachment.
Il nome della nuova puntata è quello dell’ex capo stratega della Casa Bianca, Steve Bannon, il quale ha definito in una dichiarazione per un nuovo libro di Michael Wolff “sovversivo” e “antipatriottico” l’incontro tra il figlio di Trump, Donald jr., e un gruppo di russi avvenuto durante la campagna elettorale del 2016 alla Trump Tower.
L’interessato, il presidente Usa, ha provveduto immediatamente a licenziare Bannon affermando che “ha perso la testa” e che “finge di essere in guerra con i media, che chiama il partito di opposizione, ma ha passato il suo tempo alla Casa Bianca facendo trapelare false informazioni ai media per sembrare molto più influente di quello che è”.
Il patatrac di oggi arriva ad un mese dall’ammissione di colpevolezza dell’effimero consigliere alla Sicurezza Michael Flynn, il quale ha dichiarato al procuratore speciale Robert Mueller di aver ricevuto dal genero di Donald Trump, Jared Kushner, l’ordine di prendere contatto con i russi.
Con tutta probabilità il procuratore vorrà ora interrogare Bannon, per cui si prospettano nuove rivelazioni scomode per la Casa Bianca. Il Russiagate vede, lo ricordiamo, l’ipotesi di interazione dello staff di Trump durante la campagna elettorale e forse dello stesso candidato con i russi al fine di battere la concorrente democratica: il 9 giugno 2016, nel pieno della campagna elettorale, Hillary Clinton aveva parecchi punti di vantaggio su Trump, ma poco dopo hacker russi divulgarono oltre 20mila email del partito democratico che portarono alla luce un’operazione del comitato centrale, che avrebbe dovuto essere neutrale, volta a screditare il candidato alle primarie Bernie Sanders a vantaggio dell’ex segretario di Stato.
Oltre a Flynn, che aveva promesso (secondo le accuse) all’ambasciatore russo a Washington Sergey I. Kislyak l’eliminazione delle sanzioni al suo paese, gli altri nomi del pasticcio Russiagate sono quelli del consigliere politico del presidente e figura di primissimo piano alla Casa Bianca Stephen Miller, interrogato da Mueller in merito al siluramento del 9 maggio 2017 del capo dell’Fbi James Comey, il quale stava indagando proprio sulla collaborazione dello staff del presidente con i russi; di Paul Manafort, ex manager della campagna elettorale di Donald Trump ma risultato essere stato stato sul libro paga del partito filorusso dell’ex presidente ucraino Viktor Yanukovich (consulenze per 12,7 milioni di dollari) e per un affare da 18 milioni di dollari inerente la vendita di partecipazioni della tv via cavo ucraina a una società creata in partnership tra lo stesso Manafort e un oligarca russo, Oleg Deripaska, vicino al presidente russo Vladimir Putin; di Rick Gates, uomo d’affari vicinissimo a Trump ma che ha svolto attività in Ucraina e Russia depositando i proventi in conti offshore; del genero di Trump, Jared Kushner, pure lui per poco tempo consigliere: avrebbe avuto rapporti con Flynn ma anche con Serghei Gorkov, capo della banca russa Vneshecononmbank, vicina al Cremlino e nell’elenco degli obiettivi delle sanzioni; dell’ex ministro Jeff Sessions, più volte ascoltato dalla commissione senatoriale dove ha negato sotto giuramento di avere avuto rapporti con i russi durante la campagna elettorale, ma l’Fbi continua a dirsi certa di avere le prove di almeno tre incontri dell’Attorney General con l’ambasciatore russo Kislyak.