Non è la prima volta che gli uomini devono toccare il fondo per poi risalire in superficie. Ma occorrono le mosse giuste, non bisogna perdere tempo, vietato rifugiarsi nell’ipocrisia.

«Il tempo delle parole è finito, ora bisogna passare ai fatti». Queste parole sono state pronunciate mercoledì scorso, 20 febbraio, da una delle vittime di abusi sessuali convocate in audizione preliminare dai responsabili dell’organizzazione del summit che si sta svolgendo in questi giorni in Vaticano.

In presenza di 190 vescovi provenienti da diverse diocesi del mondo, ad una rappresentanza di quanti di recente o in passato hanno subito violenza sessuale da parte di membri del clero cattolico è stato finalmente riconosciuto il sacrosanto diritto di riferire la propria esperienza ed essere pubblicamente ascoltati. Abbiamo letto che, nell’aula, s’è creato un clima d’assoluto silenzio. Questo silenzio, si spera che non sia dovuto solo all’imbarazzo dei membri di un’istituzione che vede messe a nudo le sue vergogne o, peggio ancora, all’ipocrisia di chi è aduso all’antica pratica di coprire la propria acquiescenza sotto il velo d’una commiserazione di facciata, retorica e convenzionale. Si spera che il silenzio di questi giorni, in Sala Paolo VI, sia segno d’autentico rispetto verso chi ha subito ferite spesso inguaribili da parte di coloro ai quali, a suo tempo, aveva affidato la propria formazione etica e spirituale.

In ogni caso, non c’è dubbio: il tempo delle parole ormai è scaduto: ad un atto di pubblica penitenza, in un organismo ecclesiale ove la confessione è sacramento, adesso devono tener dietro azioni coraggiose, precise e coordinate a livello internazionale. Azioni capaci di offrirci, se non altro, un indizio credibile che non si assiste ad un’operazione di facciata, alla quale rischia di far seguito, diluita nel tempo, la consueta prassi d’insabbiamento.

Questa volta la gravità dei fatti, impossibile ormai da negare o anche solo minimizzare, il loro prepotente imporsi alla pubblica opinione, dovrebbero sollecitare gli uomini di Chiesa ad un ripensamento in profondità delle motivazioni di quanto è accaduto e continua ad accadere. Ma, assieme alla riflessione, occorre metter mano a misure concrete, di tipo normativo ed operativo, affinché siano puniti come di dovere certi comportamenti che non sono solo frutto di patologia, ma anche e soprattutto di criminalità.

Quella che è una scelta di civiltà verso chiunque si macchi di reati del genere – ossia, non dissociare mai l’aspetto punitivo con quello curativo e, se possibile, redentivo – non può e non deve tradursi, per nessuno, in impunità. Il sacerdote, sotto il profilo penale, non dovrebbe godere d’alcuna tutela speciale, rispetto agli altri cittadini, beneficiando ovviamente delle medesime garanzie legislative. Arroccarsi dietro il diritto canonico, farsi scudo d’antiche immunità è una strategia che appare ormai perdente a chiunque ragioni con un minimo d’onestà intellettuale, oltre che morale. Le misure che ci si attende, dunque, non dovrebbero avere carattere d’emergenza, non dovrebbero somigliare a tamponi usa e getta, ma dovrebbero essere strutturali, come il Papa stesso propugna e sintetizza nelle 21 linee-guida del Piano d’azione che ha sottoposto all’esame dei vescovi convocati in questi giorni in Vaticano.

Al di là dei conflitti che serpeggiano tra i prelati, non solo nella Curia romana ma un po’ ovunque, in Europa e negli altri continenti, soprattutto negli Stati Uniti, al di là della contrapposizione tra progressisti e tradizionalisti, tra bergogliani e antibergogliani, strumentalizzando a fine polemico una questione drammatica come questa, al di là di tutto ciò, emerge la questione di fondo della credibilità della Chiesa. A questa convinzione s’accompagna la speranza che, più che preoccuparsi di difendere la propria lesa maestà, l’Istituzione, e gli uomini “consacrati” che la rappresentano, trovi il coraggio di guardarsi allo specchio, fissando attentamente il male che deturpa i suoi connotati. Lo dico nella consapevolezza che, all’interno della Chiesa, soprattutto nelle realtà parrocchiali e nelle piccole comunità, oltre che in molti persino eroici sacerdoti, ci sia molto, molto bene, che continuerà in ogni caso ad essere espresso. Tuttavia, proprio questo bene rischia d’essere travolto da scandali incapaci di trasformarsi in ciò che dovrebbero essere: scandalo significa “pietra d’inciampo”, e inciampare, cadere, patire molto dolore, in casi come questo, è l’unico modo per rimettersi in piedi e camminare.

Queste cose, molto meglio di me, le ha dette il Papa, facendo ricorso alla parola giusta: “purificazione”. Se è vero che al cuore del messaggio cristiano c’è l’esperienza della conversione, e se ancora c’è fede nel fatto che convertirsi sia possibile sempre, e a chiunque, a patto che veramente lo voglia, allora questa occasione storica non va sprecata. Non è la prima volta che gli uomini devono toccare il fondo per poi risalire in superficie. Ma occorrono le mosse giuste, non bisogna perdere tempo, vietato rifugiarsi nell’ipocrisia, indispensabile curare la piaga del fariseismo! Ogni istante d’inerzia o di paura è spreco mortale.

Saprà farlo la Chiesa in tutte le sue articolazioni, centrali e periferiche, verticali e orizzontali? Saprà individuare la pista giusta? C’è da sperarlo, sinceramente, benché le esperienze passate alimentino più di un dubbio. Credo che questo auspicio sia condiviso sia da chi è fedele alla Chiesa, da cui s’attende lumi e guida autorevole, sia da chi, restando sulla soglia, guarda con apprensione a un così grave processo di decadenza, venuto allo scoperto senza più veli. Cosa inevitabile, del resto, nell’era dell’informazione globale.  Dunque, non solo le comunità di fede, ma anche il mondo laico, se consapevole della crisi etica e del vuoto spirituale del mondo d’oggi, non può non avere viva preoccupazione per quello che ormai è sotto gli occhi di tutti.