Una vittoria dimenticata?

Dicevo già, pochi anni addietro, che le commemorazioni di eventi possono servire a qualcosa – ma non è neppure certo – ove si propongano come occasioni di serie riflessioni storico-critiche e non solo apologetiche. Se dubbi sorgono, dunque, circa l’utilità delle commemorazioni, è però certo che le “non commemorazioni” hanno per lo più matrici ideologiche, sempreché non assumano volutamente contorni oltremodo faziosi. Tale è appunto il caso del quasi silenzio, a parte qualche stanca celebrazione di rito, inopinatamente sceso sulla ricorrenza del centenario della vittoria italiana del 4 novembre 1918 contro l’Austria nella Prima guerra mondiale, peraltro l’unico successo militare dal 1848 in poi, ciò che contrasta, tra l’altro, con l’enfasi posta negli eventi celebrativi del centenario dell’entrata in guerra. Ma questo può trovare plausibile esplicazione ove ci si acconci soltanto sulla conformistica motivazione irredentistica, vale a dire la ricomposizione del territorio nazionale, a completamento del processo unitario, con la liberazione delle terre ancora soggette al dominio straniero; il che, facendo il paio con altra liberazione, rimane del tutto funzionale al regime in atto. Vero è, invece, che oltre a quello irredentistico, sussistevano ben altri moventi – colonialistici, nazionalistici e imperialistici – che si situano su un filo di continuità, dal post-Risorgimento fino alla mussoliniana “guerra parallela”, ciò che però è stato espunto per la coerenza del panorama commemorativo e politico-ideologico. In siffatto “idilliaco” contesto, per di più amplificato ora da un rinverdito clima da crociata teso a riaffermare i valori fondanti della Repubblica – partecipazione democratica, antifascismo – di cui, a distanza di ben un settantennio, non se ne sentiva affatto bisogno, quella vittoria rappresenta un elemento parecchio dissonante.

E qui s’innesta la ricerca delle motivazioni profonde del silenzio commemorativo! Sia ben chiaro però che la doglianza non è affatto di carattere “patriottico”, bensì verte sul suo perché: ciò vale a dire che la questione, secondo un’espressione usuale, non è più di merito ma di metodo. Già, quella vittoria, secondo una untuosa visione, fu prodromica all’avvento del fascismo, anzi ne fu pronuba, poiché il fascismo si ergeva a erede dell’arditismo, del volontarismo, del cameratismo, dell’aristocrazia da trincea, talché la creazione del mito dell’uomo nuovo che avrebbe redento la nazione avanzava di pari passo con quello della “vittoria mutilata”. Insomma, secondo una visione ideologica ora più che mai in auge, quella del 1918, più che superare la disperazione di Caporetto, fu una vittoria ambigua da cui il fascismo trasse forza e consenso. Tutto ciò stride enormemente con il mito della Repubblica, che dall’antifascismo continua a trarre la sua unica ragion d’essere, con il suo imperante buonismo d’accatto da accoglienti “preti di strada”, funzionali alla nuova Chiesa Francescana, ed un farisaico pacifismo, erede delle mistificanti suggestioni della cultura di sinistra. Questi gli equivoci di fondo della nostra democrazia, nata dal mito resistenziale tra sospetti e contraddizioni, solo apparentemente liberale, generata in realtà da una gravissima sconfitta del liberalismo, geneticamente manipolato in settant’anni di Repubblica da ideologie sovente cattive e da maestri non di rado peggiori.

Aggiornato il 27 novembre 2018 alle ore 12:59