Dopo l’ennesima decisione di “non decidere”, sostanzialmente assunta sabato dall’assemblea nazionale del Pd, l’unica certezza di questa tormentata fase politica italiana è che c’è un maledetto, vitale bisogno di una rinnovata forza genuinamente riformista, e che non può più essere il Partito Democratico di Renzi (“PdR”) e dei capi e capetti che dal 2014 in poi hanno sostenuto od anche semplicemente tollerato la corsa dell’ex Premier, non verso la distruzione di se stesso - cosa di cui, invero, non ce ne saremmo potuti fregar di meno - ma del Pd in quanto simbolo d’una Grande Speranza, tutta raccontata in quel “Yes, we can” che Walter Veltroni, nel febbraio del 2008, mutuò da Barack Obama per lanciare il sogno del nuovo soggetto politico nato dalla “miscelazione” delle ceneri dell’ex Dc e dell’ex Pci.

Nel suo commento di ieri, il vice direttore del Corsera, Antonio Polito, ha rappresentato con la consueta efficacia la necessità, per il Paese, che venga superata la condizione di stallo in cui permane la forza politica che ha caratterizzato lo scenario istituzionale negli ultimi dieci anni. Torna utile riproporne in sintesi la conclusione, per poi dimostrare quanto sia vera l’esigenza d’una svolta, e quanto essa sia anche molto difficile, esemplificando, seppure in via molto riduttiva, attraverso il caso Campania e il caso - Irpinia.

Ha scritto Polito: “La crisi del Pd è un problema serio. Deve preoccupare anche chi non lo vota o gli è contro. Si tratta infatti dell’unico vero partito di opposizione, visto che Forza Italia non vota la fiducia ma resta alleata di Salvini. E la qualità dell’opposizione definisce la forza di una democrazia. E’ preoccupante che il governo avverta di non avere una opposizione. È un male perfino per l’esecutivo”. E ancora: “Nell’area politica che gravita intorno alla sinistra riformista c’è un popolo vasto, onesto, attivo, impegnato. E’ uno spreco che conti così poco nel dibattito pubblico italiano a causa della paralisi del suo partito di riferimento”.

Ecco. Sabato a Roma il Pd ha deciso di non decidere. Ha promosso Martina da reggente a segretario. Ma tutti hanno avvertito che chi comanda è ancora Renzi. Il quale continua a saper infiammare la platea, perché è indubitabilmente figlio d’una mamma rimasta incinta soltanto quattro volte. E perché la politica, al pari della vocazione agli errori - errori disastrosi - ce l’ha nel Dna.

Tutto è rinviato. Martina di fatto era e resta provvisorio. Resta lì fino a febbraio prossimo, come testimonianza d’un rito funebre infinito. E’ diventato perfino più magro, scheletrico, il viso incavato. Fino a sabato scorso era “reggente”. Ora, da segretario provvisorio, è “retto” dalla “decisione di non decidere” dell’establishment mezzo renziano e mezzo non più.

E tanto, mentre Matteo Renzi, che “ha perso i voti, non il vizio” (titolo del Fatto Quotidiano di ieri), più che avvertire, minaccia le minoranze interne che “riperderanno” al prossimo congresso, ovvero che lui si riprenderà il partito, magari mettendoci formalmente a capo un suo attendente, il pupo agli ordini del puparo: insomma, punto e a capo come se non ci fossero stati né il “4 dicembre” (2016) né il “4 marzo” (2018); e come se il Pd dimezzato nelle urne con Renzi segretario fosse stata un’ingiusta punizione del destino cinico e baro.

Conclusione logica, il Pd, questo Pd, resta in crisi: una crisi - per ridirla con Polito - che facendo venir meno la qualità dell’opposizione danneggia anche il governo centrale, oggi a guida M5S – Lega, i governi delle regioni dove il Pd è maggioranza ma al suo interno è profondamente diviso (vedi la Campania), e le amministrazioni locali in cui il Pd ha perso le recenti elezioni ma non riesce ad organizzare una opposizione dignitosa ancora a causa delle guerre per bande che ne caratterizzano l’attività politica (vedi il caso - Avellino).

Cominciamo dal Pd regionale. Vedremo se e in che misura cambierà la situazione di stagno in cui il partito versa da data ormai immemorabile. La segretaria Assunta Tartaglione è dimissionaria ma le sue dimissioni sono di fatto congelate. Ogni occasione è stata buona per rinviarne la presa d’atto e dar luogo agli atti conseguenziali: prima le elezioni politiche, poi il turno della amministrative, infine – ma sarà davvero la fine? – l’assemblea nazionale.

Come ha opportunamente rilevato Antonio Bassolino la scorsa settimana, il Pd a Napoli è semplicemente distante da tutto: dal dibattito politico e culturale, dai problemi, dalla gente. Ci permettiamo di aggiungere che i suoi esponenti locali che pure hanno recentemente avuto ruoli istituzionali governativi, ancorché senza lasciar traccia - tipo Gennaro Migliore - l’unico balbettio che sono riusciti ad emettere è che non potrà essere Vincenzo De Luca il prossimo candidato alla presidenza della Campania. Il perché non lo hanno spiegato. Non può essere lui, punto e basta. Ecco un esempio illuminante di come il partito riesca a fare danni a se stesso, oltre che alla istituzione Regione (attualmente – vale ricordarlo – il Governatore è De Luca), attraverso una opposizione interna di scarsissima qualità. Anzi, addirittura strumentale: via De Luca non perché governa male o disonora il Pd; via soltanto per dir qualcosa, per testimoniare di esistere.

In Irpinia è difficile che si possa far peggio di quanto è stato fatto con i tesseramenti fasulli, con il commissariamento affidato ad Ermini, con un congresso farsa finito in tribunale, con il mostruoso miracolo della resurrezione della coppia De Mita-Mancino, con la consegna del Comune capoluogo ai 5 Stelle. Quello visto da queste parti è un film horror della politica, l’antitesi culturale di ciò che la provincia irpina ha potuto vantare nella sua nobilissima e lunga tradizione politica.

Adesso si annunciano novità. E chissà che non dovremo prendere atto, da qui a qualche mese, che davvero al peggio non c’è mai fine. La probabile novità l’ha annunciata, più correttamente l’ha fatta intendere, Livio Petitto, il candidato al Consiglio comunale di Avellino dalle circa 1.200 preferenze. Record assoluto di fattispecie in città.

Petitto, il quale non è uno che parla a vanvera, ha detto che “...adesso abbiamo finalmente un segretario nazionale legittimato a prendere decisioni. Spero, dunque, che ci sia presto una determinazione sul caso irpino in grado di farci uscire dalla situazione di stallo in cui ci troviamo”. Anche perché “...i limiti della decenza sono stati superati tutti”.

Oltre a sapere ciò che dice, Petitto è allo stato dei fatti il riferimento principale di Del Basso de Caro in Irpinia, e Del Basso de Caro lo è di Martina in Campania. Se tanto mi dà tanto, significa che Del Basso de Caro ha avuto rassicurazioni da Martina che la federazione irpina sarà di nuovo commissariata, ma stavolta con persona più gradita di Ermini e soprattutto lontana da Renzi.

Le cose stanno così. Dopo aver subito lo sgarro che è stato subito, per tesseramento e congresso, ad opera di Ermini, del Governatore e dei ras locali, la “vendetta” dei decariani e dei deluchiani (di “Enze”) appare più che legittima. Ma il rischio che si vada di male in peggio è decisamente molto alto. Un nuovo commissariamento (ammesso pure che i renziani del Nazareno lo concedano a Martina), ma per fare cosa? Per rincontare le tessere farlocche e vedere se la quantità di quelle false è maggiore o minore nell’uno o nell’altro schieramento?

Ecco: questa prospettiva sarebbe un fatto politico peggiore di tutto quanto è già accaduto, la rivelazione plastica che il Pd, tutto il Pd, non solo quello di strettissima obbedienza renziana, continua a non capire ciò che è accaduto e come stanno le cose oggi rispetto al futuro prossimo.

Un nuovo commissariamento avrebbe invece un senso se avesse come scopo la rifondazione del partito in provincia, cosa possibile soltanto se si riparte da zero: zero tessere, zero classe dirigente, zero tutto fuorché la volontà genuina di cominciare daccapo, restituendo alla militanza ruolo e funzione che ne esaltano il significato, ossia la politica come servizio, non come mezzo per ottenere prebende, privilegi, medagliette. Zero tutto fuorché la necessità urgente, concreta, palpabile di tornare tra la gente, nel capoluogo e in provincia, per ascoltare, discutere, proporre, trasferire ai livelli istituzionali competenti ciò che il “popolo” dice. Se non è questo un partito democratico e riformista, non si capisce cos’altro possa e debba essere.

Ecco cosa si attende “il popolo vasto, onesto, attivo, impegnato” che Polito vede gravitare intorno alla “sinistra riformista”, e che non merita di contare così poco nel dibattito pubblico irpino e regionale “a causa della paralisi del suo partito di riferimento”.

Oltre tutto, le cose che avete appena letto non sono il frutto delle nostre analisi, o almeno non solo di quelle. Sono le medesime cose che si dicono e si ambiscono all’interno della stessa, attuale classe dirigente del Pd irpino. Molto recentemente, ad esempio, le hanno dette donne impegnate del Pd come Rosanna Repole e Chiara Maffei, giusto per citare casi di persone che al partito hanno sempre e soltanto dato.

Ripartire da qui sarebbe il passo giusto. Ed avrebbe anche un senso la probabilissima “novità” annunciata da Petitto. Fuori dalla logica degli obiettivi accennati, si continuerebbe ad avere il partito dei Signori delle tessere, delle clientele, dei privilegiati, degli affaristi, degli avventurieri, degli improvvisatori, e potremmo metterci dentro anche i mariuoli e quant’altri non hanno nulla che vedere né con il riformismo né con la “nobiltà” della Politica e della funzione politica.