La storia di Giovanna è una storia del Sud. Di quelle che si leggono nei libri o si guardano nei film. A cambiare, però, è il contesto che scorre sullo sfondo della vita di Giovanna Miele. Non la Calabria ‘ndranghetista né la Napoli di Gomorra, ma le terre che delimitano il confine tra Napoli e l’Irpinia, la provincia verde e quieta, dove l’aria buona spazza le montagne imponenti e fresche. Poco contano, poi, le voci malevole che sempre più insistenti raccontano di rifiuti interrati chissà dove, lontano dal clamore che accompagnò, ad esempio, la vita di Difesa Grande. E importa ancora meno che l’Irpinia, tutta l’Irpinia, non meno di Napoli o Reggio Calabria, sia impoverita dalla mancanza di lavoro. Un lavoro che non c’è né si crea più, schiacciato da un parassitismo statalista che ha finito per assorbire tutto e dissolverlo in un sistema magmatico fatto di clientele e strane commistioni: un sistema che non ha necessariamente per arma la violenza ma la riduzione in schiavitù. Schiavitù culturale, umana e, naturale conseguenza, economica.

Malgrado tutto, però, per l’Irpinia il problema sono loro: quegli ibridi avulsi da sé che vivono al confine. Come se l’affare non fosse cosa loro, di tutti: chi vive nel Mandamento, nel Baianese o nel Vallo di Lauro per gli irpini veri, gli abitanti delle nobili montagne, non ha eguale diritto di cittadinanza. Poco importa che parlamentari, presidenti di provincia, dirigenti regionali e altri prelati istituzionali, di ogni colore politico, abbiano costruito le proprie carriere politiche anche sui voti di quei cittadini minori - e non solo.

Perché la camorra, in Irpinia, non esiste. Però si praticano il racket e l’usura e i trentenni sono stati disintegrati e neutralizzati dalla mancanza di occupazione e la DDA continua ad istruire processi sulle infiltrazioni mafiose e la febbre dell’azzardo continua a salire e i centri di accoglienza sono spuntati per anni come funghi, soprattutto in comuni storicamente terra di clan collegati a quelli del Vallo di Lauro, magari benedetti dall’accondiscendente indifferenza di sindaci timorati e timorosi, colleghi di altri primi cittadini che continuano ad autorizzare speculazioni edilizie in assenza di strumenti urbanistici aggiornati.

In Irpinia la camorra non esiste perché non si spara. E seppure si spara, si tratta di incidenti di percorso o regolamenti di conti interni. Ecco il contesto che corre sullo sfondo della vita di Giovanna, figlia di Fortunato Miele, imprenditore di Baiano ucciso, nel luglio del 2013. Dalla sua morte e da quella di un altro imprenditore, Francesco Basile, presero avvio le indagini della Direzione Distrettuale Antimafia di Napoli che hanno portato a scoprire il cosiddetto “Nuovo Ordine di Zona” del baianese.

«Ho vissuto a lungo gravata dal peso del pregiudizio. Sentivo – e in parte è ancora così – come se un’ombra andasse allungandosi sulla mia vita e sulla mia persona. Lo strisciante dubbio su chissà quale segreto avessi da nascondere si è lentamente insinuato, oscurando l’unica verità che soggiace a tutta la mia storia: la verità di una studentessa universitaria come tante, che si è pagata gli studi da sola e che nulla sapeva di quel che si stava consumando dietro le quinte della sua quotidianità».

Giovanna, praticante commercialista, oggi ha 26 anni: la sua laurea in economia è arrivata nel 2016, dopo aver attraversato il cuore della tempesta che le ha messo a soqquadro la vita, senza però fermarla. «Ho studiato all’Università di Salerno. Il docente che sarebbe poi stato il mio relatore di tesi, conosceva la mia storia e il contesto nel quale sono cresciuta. Da qui è nata un’idea di ricerca che, all’inizio, non avevo affatto preso in considerazione»: l’economia del benessere guardata, però, al rovescio. Giovanna, infatti, ha studiato l’incidenza dell’infiltrazione mafiosa nell’economia legale smentendo, ad esempio, la convinzione che vige in territori come l’Irpinia secondo cui la camorra sia un fenomeno d’altrui interesse. Una grande menzogna autoassolutoria. «Sono partita dall’analisi di alcuni dati che dimostrano quanto la presenza di agenti che, in maniera parassitaria, si agganciano alle forze dell’economia sana (imprese, commercio o servizi), alimentandosi della ricchezza che esse producono, danneggia l’intera collettività e non solo i territori direttamente coinvolti. La riduzione delle risorse disponibili, infatti, causa una generale compressione del benessere collettivo, ancorché considerando che da certi fenomeni non ci si può mai considerare pienamente immuni». Di fatti, se c’è un’ampia fetta di territorio che paga la tassa occulta del pizzo o è ostaggio dell’usura, per le imprese diminuiscono le possibilità di creare lavoro. Se si evadono sistematicamente le tasse, da piccoli o grandi contribuenti, le risorse per finanziare lo stato sociale si assottigliano drammaticamente.

«A differenza della consueta impostazione di tesi in materia economica, per avvalorare la mia teoria ho scelto un caso aziendale non di successo ma di insuccesso. Ho trattato la storia di Luigi Leonardi, imprenditore che, ribellandosi alla pressione del racket, è finito in rovina a causa della totale assenza di sostegno da parte dello Stato, dopo la denuncia dei suoi aguzzini. Un “caso” che mi ha permesso di intrecciare ai temi più strettamente economici quelli giuridici, facendo la differenza tra la condizione dei testimoni e quella dei collaboratori di giustizia, e di dimostrare come proprio quanto la presenza criminale sia un cancro pernicioso: Luigi era un imprenditore capace il cui insuccesso non è stato determinato da sue scelte inadeguate ma dall’azione della camorra, che ha distrutto la sua vita e quella dei suoi dipendenti».

Ecco probabilmente cosa lega la storia di Giovanna Miele a quella di Luigi Leonardi: un filo rosso di dolore, dal quale è poi scaturita un’urgenza di riscatto, la volontà di emergere da un contesto di contaminazioni che appestano la vita delle persone come l’aria che respirano. Una quotidianità fatta di un male pervasivo cui si contrappone un bene altrettanto ostinato, seppur meno visibile. «Conoscere Leonardi è stata un’esperienza particolare, toccante, emozionante. Una storia drammatica carica di significato e, per me in particolare, di motivazione e speranza. Per questo ho voluto accostare alla sua, una vicenda positiva di riscatto e rinascita, tale da avvalorare l’idea che un’altra realtà resti possibile oltreché desiderabile: il fondo agricolo Amato Lamberti, caso aziendale di successo che, essendo nato e cresciuto in un bene confiscato, ha fatto il verso alla camorra, rendendo alla collettività parte del benessere che le è stato depredato».

Una sorta di giustizia riparatoria e restitutiva, come quella che vuole Giovanna tra i 35 vincitori del 7° Premio Rassegna Economica, consegnato ieri a Napoli durante la presentazione, alla presenza del Ministro Minniti, del nuovo numero dell’omonima rivista sviluppato intorno al tema “Il valore economico della legalità e gli effetti sull’impresa e sul credito” e tra i cui contributors c’è anche lei. «Non è stato semplice sintetizzare una tesi di 130 pagine in un articolo di 13, ma ne è valsa la pena e devo ringraziare ancora il mio professore per avermi istradata verso questa esperienza. Ancora non so cosa farò dopo aver finito la pratica per la professione, ma questo percorso di studio e ricerca è stato certamente un momento tanto inatteso quanto importante per aiutarmi a voltare pagina rispetto al passato ed aprire un capitolo nuovo».

Un capitolo di una storia di riscatto e conciliazione. Una storia di donna. Una storia del Sud.