Da quando sono state presentate le liste per le elezioni del 4 marzo, sempre più spesso abbiamo sentito parlare di candidati deboli messi in campo dal Centrodestra nel collegio Camera di Ariano e nell’uninominale Senato di Avellino per una presunta scelta di “desistenza” nei confronti del Pd decisa ai piani altissimi di Forza Italia, ovvero ad Arcore.

Niente di più fantapolitico, a modesto avviso del sottoscritto. Ci sono stati evidenti forzature (vedi il candidato calabrese schierato per il Senato) dovute essenzialmente al rispetto degli accordi con le liste coalizzate. E ci sono stati errori riconducibili alle lotte fratricide interne a Forza Italia, la qual cosa non dovrebbe meravigliare più di tanto: è accaduto anche nel Pd e in “Liberi e Uguali”, fa parte della ordinaria fisiologia dei partiti da che essi esistono.

In modo particolare è fantapolitica questa storia della desistenza scientificamente studiata nello studio di Berlusconi per il collegio di Ariano. Fino a 48 ore prima della chiusura delle liste la candidata scelta dal Centrodestra era un’altra, in teoria – ma solo in teoria - più forte di quella attuale. C’è stata una rinuncia della diretta interessata per ragioni squisitamente personali, circostanza peraltro ampiamente raccontata dalle cronache locali.

In più va fatta una considerazione oggettiva.

Può essere mai credibile che il Centrodestra abbia immaginato di “desistere” nei confronti del centrosinistra che candida Giuseppe De Mita, ossia l’ex vice - presidente della giunta regionale che la notte di Marano tradì Caldoro, naturalmente per decisione concordata con Zio Ciriaco, contribuendo a far vincere le elezioni regionali all’attuale governatore De Luca? Fantapolitica.

Il problema, piuttosto, va visto sotto un aspetto più realistico e attuale. È vero che nei collegi uninominali il profilo del candidato ha una incidenza rilevante sull’esito elettorale. Ma qui c’è la domanda “una e trina” che l’elettore dovrebbe porsi e che probabilmente si porrà. Perché mai il profilo politico del candidato Giuseppe De Mita dovrebbe essere preferibile a quello della candidata del Centrodestra Carmela Grasso: per il cognome che porta, per ciò che il deputato uscente (già vice - presidente della Regione Campania e della Provincia di Avellino) ha dimostrato di valere, per la forza titanica insita nella lista della Lorenzin in cui oggi è finito dopo essere stato cacciato dall’Udc?

Cominciamo dalla fine. La formazione “Civica Popolare” messa su dall’ancora per poco ministro della Salute era partita, in questa avventura elettorale, con l’annuncio di voler cambiare il mondo. Come il tizio finito al manicomio perché si credeva Napoleone, la Lorenzin ha ottime probabilità di vivere la stessa sorte, almeno stando agli ultimi sondaggi che danno Civica Popolare all’1,2 per cento. Che nella migliore delle ipotesi, con questa legge elettorale, significa donare un po’ di sangue al Pd. Nella peggiore, ossia sotto l’1 per cento qual è la tendenza, che i voti dati a quella lista saranno voti bruciati, a riprova che Matteo Renzi non l’ha azzeccata nemmeno nella scelta degli alleati. In ogni caso, De Mita Junior avrebbe forza politica uguale a zero.

Secondo punto della domanda una e trina. L’elettore, chiamiamolo così, ordinario e l’elettore straordinario, cioè quello che come un topo di biblioteca si va a leggere tutto ciò che un politico ha fatto negli anni del mandato istituzionale, hanno contezza della “produzione” del deputato uscente Giuseppe De Mita, dell’ex vice-presidente della giunta regionale, ancora lui, Giuseppe De Mita, e dell’ex vice-presidente della Provincia di Avellino, sempre lui, Giuseppe De Mita?

A noi risulta una produzione utile alla collettività del tutto insignificante, tanto da non essere commensurabile nemmeno con il misurino dei farmacisti. Ma dal momento che potremmo essere non attendibili o troppo esigenti, voi, cari elettori, chiedete che l’interessato ne dia conto “per alligata et probata”. Avrete di che sconfortarvi.

Fino ad oggi abbiamo (ed avete) ascoltato soltanto dal deputato uscente retoriche compassate su non meglio definite “prospettive di orizzonti”, pappagalleschi bla bla bla su “derive populiste”, sulla necessità (più che condivisibile) di riscoprire i valori del “Popolarismo Sturziano”, ma dimenticando – l’interessato – che Don Sturzo, ad esempio, non avrebbe mai approvato la commistione tra attività politica e ricchissime consulenze professionali per un ente, come l’Alto Calore Servizi, gestito dalla medesima parte politica che ha elargito le consulenze.

Resta il cognome. Ed è un cognome che politicamente pesa. È innegabile che la storia di Ciriaco De Mita sia sovrapponibile, negli ultimi cinquant’anni, con la storia della provincia irpina, nel bene come nel male. E qui c’è un’altra domanda che l’elettore dovrebbe porsi e probabilmente si porrà prima di recarsi alle urne: perché mai, nelle vicende politiche di questa provincia, il cognome De Mita continua ad identificarsi con Ciriaco e non con Giuseppe? Diversamente posta, la domanda è: perché mai, in una età ormai prossima ai 50, la deambulazione politica del Nipote è ancora tanto incerta da doversi affidare al bastone dello Zio novantenne?

Comunque la si metta, il profilo politico di Giuseppe De Mita appare più vicino a quello d’un Principe ereditario che non a quello d’un aspirante al Parlamento meritevole dell’investitura popolare. In altre parole, è l’espressione plastica della “casta”.

E torniamo all’interrogativo essenziale che aveva introdotto questa riflessione: perché mai il profilo di Carmela Grasso, biologa, dirigente Asl, assolutamente “presentabile” anche nell’accezione di natura giudiziaria ed etica che si dà al termine, persona perbene che vive del suo, non professionista della politica ma dentro le cose della società civile, dovrebbe essere più debole di quello del candidato del centrosinistra?

Lo stesso discorso vale, alla lettera, per gli altri candidati nel collegio uninominale di Ariano: tutti con una storia personale dignitosissima alle spalle, tutti accomunati dal fatto che non appartengono alla “casta”.

E allora eccola qui la lettura sostanziale che bisognerebbe dare alla sfida soprattutto nel collegio elettorale di Ariano, dove la “casta” irpina è rappresentata al massimo del cognome sovrapponibile con la condizione in cui l’Irpinia oggi è: una provincia con il Pil tra i più bassi e l’indice di disoccupazione giovanile più alto in assoluto d’Italia; una provincia governata da mezzo secolo dal sistema di potere più clientelare del Mezzogiorno d’Italia; una provincia che anno dopo anno, specie nel territorio del collegio Ariano – Alta Irpinia, si va spopolando sempre di più, non certo per un capriccio punitivo del Padreterno ma per le politiche miopi e sballate di un gruppo dirigente che continua a blaterare della stupidità del pensiero politico altrui invece di chiedere scusa per le devastazioni provocate nel tessuto sociale e nelle coscienze della comunità irpina.

Il senso vero delle elezioni politiche in questo collegio è la scelta tra la “normalità” dei candidati del Centrodestra (Grasso), e dei Cinque Stelle (Maraia), per stare a chi realisticamente può farcela, e il candidato blasonato della casta che fin qui non dimostrato di essere né De Gasperi né un commerciante d’auto presso il quale compreresti un usato sicuro.

E’ la scelta tra continuità di ciò che c’è e ciò che potrebbe aprirsi al futuro, a prescindere da chi oggi incarna la normalità. È la scelta, insomma, tra rassegnazione e speranza.

Perciò, fate un po’ come meglio credete il 4 marzo, care elettrici e cari elettori del collegio di Ariano.