Leonardo Palmisano è un esperto di lavoro, migrazioni e criminalità organizzata. Lo scrittore ed etnografo barese – già autore di “Ghetto Italia”, il libro d’inchiesta sul caporalato italiano – presenta ad Avellino “Mafia Caporale”. Un nuovo reportage che si trasforma in resoconto dettagliato dello sfruttamento nel mondo del lavoro in Italia. Attraverso il suo viaggio, oltre i confini di un universo in cui «i beni contano più di chi li produce», Palmisano fotografa i prototipi della schiavitù moderna. Dalla Puglia al Trentino Alto Adige, dalla Sicilia alla Valle d’Aosta, la sua inchiesta per Fandango Libri ci restituisce lo spaccato di un Paese malato. “Mafia Caporale” è un diario di guerra, ricostruito al ritmo delle storie dei suoi protagonisti. Una realtà tutta moderna, declinata secondo schemi antichi. Compressione dei diritti dei lavoratori, dei diritti umani, svuotamento del senso di dignità.

Se l’errore più comune è quello di ragionare per comparti stagni, questa inchiesta ha il grande merito di abbattere i muri dei cliché. Le mafie non sono più un fenomeno contro-polare, un antagonista d’eccellenza cui è richiesto di bilanciare, di tanto in tanto, la sovranità dello Stato. Costituiscono – insieme ai trafficanti transcontinentali di esseri umani, massonerie, colletti bianchi, alcuni sindacati accompagnati da nugoli di politici con altrettanti imprenditori e banchieri – il nerbo di un “sistema” che si sostituisce alle Istituzioni stesse, quando non le condiziona direttamente. Specie in quei territori in cui il senso di distacco dallo Stato è più forte, più radicato.

«Mafia Caporale è più forte del collocamento pubblico», scrive Palmisano. «Una composita congrega che non confligge al proprio interno, ma scarica le sue tensioni sui lavoratori ponendoli gli uni contro gli altri in una esasperata guerra tra poveri». Il caporalato diviene un fenomeno trasversale. Esce dal confino teorico cui è costantemente relegato, e supera i limiti della geografia, del genere, dell’età e dell’etnia. Permea fin nelle fondamenta del sistema produttivo del nostro Paese. I tentacoli di Mafia Caporale arrivano ovunque. E si nutrono dell’indifferenza. «Ci possiamo considerare uniti, noi italiani, soltanto nel crimine e nell’indifferenza. Perché in tutto il resto siamo chiusi ciascuno nel nostro piccolo orto di provincia»

Leonardo, “Mafia Caporale” si apre con un dato: l’Italia è al quarantanovesimo posto nel ranking dei 167 Paesi presi in considerazione dal Global Slavery Index 2016. Il rapporto annuale sulla schiavitù nel mondo della Walk Free Fundation. Il Belpaese dà lavoro a quasi 130 mila schiavi. In Europa, solo la Polonia fa peggio. Quante variabili tiene insieme questo importante dato sulla schiavitù? Cosa ci rende più compromessi, in riferimento allo sfruttamento a vari livelli nel mercato del lavoro, di Germania, Francia o, persino, di Grecia e Spagna?

«L’indice tiene conto di variabili qualitative e di stime costruite sulle evidenze dei processi, della domanda di sesso a pagamento e di altri fattori più o meno misurabili. In quei 130 mila mancano, per esempio, i braccianti. A quei dati, già così drammatici, dobbiamo aggiungere un dato più recente, che ci è stato consegnato dall’Istat. Sono quasi 82 i miliardi di euro derivanti dallo sfruttamento del lavoro irregolare ogni anno. Di questi, quasi quattro miliardi arrivano solo dallo sfruttamento della prostituzione. Siamo un Paese che tollera il lavoro nero, l’evasione retributiva e contributiva, il lavoro minorile. Ma siamo anche il Paese nel quale si è fatta passare l’idea che l’alternanza scuola/lavoro è lavoro, lo stesso per i tirocini formativi. Siamo diversi perché per noi italiani il “Lavoro” ha perso di centralità».

“Non c’è posto che si salvi. Non c’è isola felice. Non c’è regione immune, santa e vergine. Dappertutto germoglia l’illegalità”. Persino negli isolotti di provincia. È possibile disegnare e ricostruire una sorta di geografia del potere criminale in Italia?

«Sì, è possibile, ma solo tenendo conto della complessità dei fenomeni criminali. Io non sposo l’idea di mafie con cupole soltanto territoriali, perché quello che incrocio è la diffusione di associazioni criminali complesse, che rispondono alla contemporaneità. Per intenderci, le mafie tradizionali, quelle familiste, convivono e collaborano con altre consorterie illegali. Creando un unico tessuto che stritola l’economia e la politica sana, a vantaggio dell’economia e della politica criminale».

Dal quadro che descrivi, le Istituzioni a volte prestano il fianco o strizzano l’occhio al “sistema” dell’illegalità diffusa. Hai parlato di politica sana e politica criminale. Scrivi che “esiste una complicità morale tra questa mafia e coloro che incoraggiano pubblicamente l’alleggerimento dei diritti dei lavoratori”. Ci si può ancora fidare della politica? E fino a che punto è compromessa?

«I politici sono complici e talvolta artefici. Se una Regione non vincola i finanziamenti dei programmi di sviluppo rurale a una certificazione sul lavoro, diffonde denaro nel sistema di Mafia Caporale. Se una Regione o una Procura sgomberano un ghetto senza preoccuparsi della destinazione successiva dei braccianti, stanno favorendo il “sistema”. Perché la fragilità dei lavoratori è utile ad abbassare ulteriormente i salari e l’asticella dei diritti. Ci sono politici eletti dai caporali. Ci sono politici eletti dai clan che gestiscono il lavoro e il lavoro nero. Perché dovrebbero rinunciare a questi voti in una fase di grande contrazione dell’elettorato?»

Ma quindi, se un distaccamento consistente della politica rappresentativa fallisce, che resta da fare? Si riparte dai movimenti?

«Magari! Ma un movimento dei movimenti. Mi piacerebbe dare una mano alla costruzione di una giuntura tra No Tav e No Tap, per esempio, coi No Muos. E, su questa piattaforma ambientalista, produrre un’idea alternativa di trasporto, di mobilità, di produzione energetica in Italia. Per fare questo serve, secondo me, una maggiore presenza sul campo delle “teste pensanti” di questo Paese. In pochi abbiamo preso posizioni nette, in questi anni, su giornali e libri. Dobbiamo accrescere il numero degli intellettuali e degli artisti dentro i movimenti, per innalzare il livello del dibattito. Talvolta i movimenti sono soffocati dalle penne dei padroni. Bene, servono le penne dei movimenti».

Intanto, lo scorso novembre la Commissione Parlamentare Antimafia adotta tre documenti esito di “Mafia Caporale”. Che dire, Leonardo. Complimenti. Certo, non si può restare indifferenti alle testimonianze che porti a galla. Alle storie che racconti. Alla luce di questo grande riconoscimento, ti aspetti una maggiore attenzione del Ministero dell’Interno sulle nuove fenomenologie metamafiose? E soprattutto: come vanno sollecitate, ancora, le Istituzioni?

«Voglio rendere pubblici i documenti per far sì che possano circolare ovunque quelle informazioni che raccontano della presenza di mafie centrafricane in Puglia e in Italia. La globalizzazione produce mafie che si irradiano su più continenti, approfittando anche del dinamismo demografico presente nei continenti più giovani. L’Europa è vecchia. Vecchie sono le sue mafie. La verità è che dovrebbero essere le Istituzioni a sollecitare noi. Chi fa dei sistemi criminali un oggetto di studio e di narrazione. Vanno costruiti dei percorsi di ascolto e di dibattito tra noi e le Istituzioni. La cittadinanza, poi, dovrebbe iniziare un percorso di analisi dei fenomeni criminali. Le grandi stragi, le mattanze di mafia, segnalavano una presenza oggettiva del crimine. Ora è più difficile riconoscerlo perché è penetrato fortemente nella società, determinandola. Le Istituzioni ne sono piene, ovunque in Italia. Più ne sono piene, più fanno inutile retorica contro le mafie. Ecco, dobbiamo pretendere che si esca dalla retorica, per esempio, assegnando i beni confiscati molto presto. Bisogna pretendere che le liste elettorali siano vuote di figure vicine o imparentate con i mafiosi. Questo è il minimo sindacale in un Paese che si definisce civile, ma non lo è».

No, non lo è. È il Paese europeo che ospita il maggior numero di schiavi, italiani e stranieri. Il vertice della sparizione dei minori non accompagnati, al ritmo di 28 al giorno secondo l’Oxfam. Ovunque emerge il disagio minorile. C’è l’esercito dei ragazzi dimenticati del Tamburi, il quartiere nato ai piedi dell’Ilva di Taranto. Le baby prostitute dei campi rom di Roma e Bari. I piccoli cinesi impiegati nel settore del tessile pratese, in Toscana. Parliamo di quello sfruttamento che scavalca l’anagrafe e descrive “famiglie intere che lavorano alla stessa macchina, sotto lo stesso padrone, per lo stesso scopo di sopravvivere. La schiavitù è il loro focolare. (…) Quando la schiavitù dà le vertigini, la caduta è quasi certa”. Come si può iniziare a contenere i numeri di questo fenomeno? Come lo si può monitorare?

«Il lavoro minorile sta tornando. Non prepotentemente, ma c’è. Dobbiamo esigere che i ragazzini che disertano l’obbligo scolastico siano ricondotti a scuola. Dobbiamo pretendere l’intervento istituzionale repressivo, verso questo fenomeno, e la confisca delle imprese che usano minori. Ma perché questo avvenga, è necessario che si cominci a riconoscere nel lavoro minorile la violazione di più di un diritto umano».

Questo è vero. Ma come è possibile che l’istruzione pubblica consenta la dispersione di un numero sempre crescente di bambini e adolescenti? Come può essere sottovalutato che, laddove un piccolo capitale culturale si disperde, le mafie si ingrossano e divengono più forti?

«Se ne fregano. L’abbandono scolastico è diventato materia per ottenere o negare finanziamenti alle Regioni. Ne so qualcosa essendomi occupato della cosa in Puglia. Le Istituzioni hanno fatto diventare l’abbandono un fatto statistico. Quando si tratta, al contrario, di un fatto di qualità, di umanità. Soprattutto al Sud, dove un ragazzino che non raggiunge il diploma è un potenziale lavoratore a nero. I politici italiani sono mediamente stupidi, non comprendono che abbandono scolastico e mafie si accompagnano. Il loro però è un cretinismo criminale, colpevole, corresponsabile».

Nel sistema di Mafia Caporale finiscono i colletti bianchi infiltrati nelle grandi agenzie di somministrazione che operano nell’Europa dell’Est. I grandi traghettatori del popolo delle badanti, dei muratori albanesi, delle cameriere della Transilvania, dei camionisti bosniaci. Degli infiniti abitanti dei ghetti e delle baraccopoli che costellano le periferie di numerose città italiane. Ci sono persino i sindacati compiacenti. Come nel caso della bancaria di Mestre, sottoposta a mobbing per non aver ceduto al ricatto sessuale. Tra il fare carriera e il confino nelle retrovie dalla banca, Irene fa una difficile scelta di dignità. “Ci sono delle mie colleghe che ormai lo fanno di mestiere. Prima la danno al capo, che le fa promuovere, poi la danno a pagamento. (…) È lo sfruttamento della prostituzione di insospettabili donne della piccola borghesia impiegatizia”. Leonardo, come è possibile che il morbo del caporalato sia permeato fino a questo punto nel sistema produttivo e morale di questo Paese?

«Perché il bisogno di lavorare è alto, mentre la considerazione del corpo femminile come oggetto inviolabile è bassa. Da qualche settimana assistiamo a un dibattito allucinante intorno alla sacrosanta denuncia di Asia Argento. In Italia si discute dei tempi e dei modi della denuncia, e non della gravità di uno show business fondato sul ricatto, sulla violenza e sull’ipocrisia. Soprattutto in tivù e nella tivù di Stato, che è sempre stata moralista in onda e debosciata nei camerini. Quindi non mi stupisco di aver incrociato donne ricattate, bancarie prostituite. Mi stupisco che non denuncino, che non lo abbiano ancora fatto».

Denunciare non è sempre semplice. Vuol dire fare i conti con i propri fantasmi, presenti e futuri. Perché una cosa è dimostrata: sia che si parli di parcheggiatori abusivi del Salento – o di vigilanti del brindisino – puntualmente al soldo delle mafie locali, che di baristi catanesi di Cosa Nostra, Mafia Caporale offre lavoro. Intercetta e copre, al posto dello Stato, i bisogni primari di una popolazione complessivamente più povera. Crea economia sommersa. Nessun uomo dovrebbe mai trovarsi nella condizione di non avere alternative. In molti casi sul piatto della bilancia pesa da un lato la povertà, condita da tanta fame di lavoro. Dall’altro, la possibilità di tirare a campare affiliandosi a un qualsiasi clan malavitoso. Quando la mafia diviene la sola risposta percepita in uno Stato complessivamente assente, quanto sono labili i confini tra giusto e sbagliato? Se si punta a sopravvivere, quanto è lecito, sul piano morale, cedere al ricatto della criminalità?

«Le zone grigie sono dappertutto, anche dentro di noi. Se tolleriamo forme di ricatto sul lavoro perché le consideriamo consuete, stiamo entrando nel territorio morale di “Mafia Caporale”. È un campo minato che fa saltare in aria migliaia di lavoratori ogni anno. Se si cede al ricatto senza cercare una via di uscita, si cade nel tranello padronale del sistema. Con questo sistema non si può giungere a mediazione, se non in presenza di rappresentanze sindacali. Ma quando il sindacato non c’è, o è come se non ci fosse, cosa si può mediare? O si sta sotto, o si sta fuori».

Si sta sotto. Perché a volte i nuovi schiavi hanno il volto di Cinzia, la giornalista di Trento pagata “a un euro al pezzo”. O di Giulia, la ricercatrice di Perugia costretta a lavorare in un call-center. Ormai il caporalato non si limita più ad abbattere i costi del lavoro. Punta complessivamente a comprimere i diritti umani. Ad abortire il capitale culturale. Leonardo, in un contesto sociale in cui sembra diffusa l’idea di poter attribuire un qualsiasi valore alla dignità, come si fa a recuperare il senso d’umanità?

«Producendo cose nuove e provando la strada dell’autonomia. Meglio morir di fame fondando una cooperativa editoriale che star sotto un editore che umilia la tua formazione, i sacrifici fatti per raggiungerla, le tue competenze e il tuo portafogli. L’autonomia è innanzitutto una scelta di libertà, una scelta soggettiva che deve essere fatta lievitare dentro comunità di lavoratori dell’intelletto. In giro per l’Italia vedo che i giornalisti cominciano ad organizzarsi, a creare nuove testate senza aspettare che un padrone sostenga l’impresa. Bene. Andiamo avanti in questa direzione. Così recuperiamo dignità e umanità. E libertà».