cultura

Lo zelo mi divora!

sabato 3 marzo 2018
di Mirabilia-Orvieto
Lo zelo mi divora!

(Antonio Zanchi, Gesù che scaccia i mercanti dal tempio, particolare, 1667, Ateneo Veneto)

Già, proprio così. Il Vangelo della terza domenica di quaresima è a dire poco imbarazzante!
Anche se, giustamente, nella Chiesa attuale parole come prudenza, moderazione, tolleranza, accettazione, sopportazione, sono all’ordine del giorno, la pagina del Vangelo di Giovanni di questa settimana appare come un fulmine a ciel sereno.
Sembra impossibile immaginare Gesù, sempre così buono e paziente, almeno così si dice, fare una frusta e cacciare con violenza gente inerme, intenta a svolgere tranquilamente il proprio lavoro.
Quel giorno era proprio “fuori di sé”. Infatti, il Maestro della Galilea, esempio di mitezza e annunciatore pacifico di un Regno promesso ai miti, si scaglia all’inizio della sua missione contro persone e cose. A pensarci bene avevano ragione i detrattori del sedicente profeta, a cominciare dai suoi compaesani, a dire che era stato da sempre uno “squinternato”, sovvertitore dell’ordine costituito.
Cristo si presenta, all’inizio della sua vita pubblica, a Gerusalemme, in prossimità della Pasqua. Arriva al tempio, la cosa più sacra per i Giudei, il santuario intoccabile dove Sacerdoti e Scribi offrono i loro sacrifici a Dio...e che fa? L’evangelista Giovanni così racconta: “Fatta allora una sferza di cordicelle, scacciò tutti fuori del tempio...gettò a terra il denaro dei cambiavalute e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: “Portate via queste cose e non fate della casa del Padre mio un luogo di mercato.” (Gv 2, 15-16).

(Luca Giordano, La cacciata dei mercanti dal tempio, 1675, San Pietroburgo)

E che Cristo era venuto a portare qualcosa di radicalmente nuovo, lo si era già capito quando, poco prima, alle nozze di Cana, aveva trasformato sotto lo sguardo di tutti l’acqua in vino. Ora, se si guarda ancora dietro nel tempo, la Bibbia riporta fatti e personaggi che richiamano fortemente il gesto e le parole di Gesù nel tempio, come per esempio nel libro dei Re, quando il re Ezechia “frantumò il serpente di bronzo fatto da Mosè, perché fino a quel tempo i figli di Israele gli avevano bruciato incenso” (“Re 18,4);
Qui il re non era diventato pazzo, al contrario. Per amore del suo popolo, fedele all’Alleanza fatta con Dio, egli non esitò un attimo a distruggere quello che era diventato ormai un simbolo idolatrico, venerato e celebrato, e questo perché Dio stesso era diventato un idolo per il popolo: da segno del divino a idolo, da segno di liberazione a identificazione con il potere religioso.
Non è un caso allora se, nell’Apocalisse di Luca Signorelli, l’Anticristo sta sopra un podio, innalzato come un idolo e con le stesse sembianze di Cristo, mentre un cumulo di tesori è deposto sotto i suoi piedi, a sottolineare la devota offerta fatta dai suoi seguaci in segno di adorazione.
Incontriamo qui la drammatica storia, la drammatica involuzione di una fede che identifica il divino con il bisogno di religiose “certezze”.

(Luca Signorelli, L’Anticristo, Cappella di san Brizio)

Insomma, tradire la fede in nome della religione, che altro non è che la richiesta di costringere Dio ad avvallare, a giustificare i pensieri, le azioni, i progetti, i “traffici” umani, sempre connotati da desideri di arricchimento, di potere, di affermazione di sé, di giudizio, di arrogante pretesa di monopolio della verità. Idolatrie antiche e nuove, di popolo e di persone, di Chiese e di osservanti.
Il profeta Osea confessa così, con grande poeticità, il peccato del suo popolo: “Rigogliosa vite era Israele, che dava frutti abbondanti; ma più abbondante era il suo frutto, più moltiplicava gli altari” (Os 10, 1-2). E molte voci, oggi, parlano di idolatria diffusa. Lo stesso apostolo Paolo, nella lettera scritta ai cristiani di Corinto, fiorente città greca, contrappone il culto idolatrico della forza fisica e dell’immagine alla “debolezza”, una debolezza che disarma ogni arroganza, che si contrappone all’idolatrica presunzione e ambizione che suscita negli animi sensibili rifiuto e indignazione profonda.
Gesù “trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe, e i cambiavalute seduti al banco”, come dire che quando accade che la fede è a supporto del dio denaro o del potere, allora non svolge, o meglio tradisce il suo compito, rovesciando i fattori: Dio non è il ricco tra i ricchi, il forte tra i forti, il potente tra i potenti, Dio non si lascia corrompere da tutto questo!
Nel suo Vangelo, Marco mette addirittura nella bocca di Gesù le stesse parole del profeta Geremia, anch’esso indignato dalla degenerazione delle fede: “La mia casa sarà chiamata casa di preghiera...Voi invece ne avete fatto una spelonca di ladri!” (Mc 11, 17). Sì, una spelonca di ladri, dice Geremia: “Pertanto non confidate nelle parole di coloro che dicono: Tempio del Signore, tempio del Signore, tempio del Signore è questo!” (Ger. 7, 4). Come i ladri nel loro nascondiglio, così fa Israele che, dopo aver compiuto ogni sorta di peccato, dice la Bibbia, si rifugia poi nel tempio credendosi in salvo!

(Antonino Raspanti, Il profeta Geremia)

L’attacco di Gesù è frontale. E come Geremia, Gesù se la prende con la sua generazione, da lui definita adultera e perversa, che onora Dio con le labbra, mentre il suo cuore e le sue azioni sono lontane anni luce da Dio. Un attacco che ricorda anche le parole di Isaia quando, rivolgendosi al suo popolo, il profeta parlò in nome di Dio: “Chi richiede da voi che veniate a calpestare i miei atri?” (Isaia 1, 12).
Tentati dunque di rendere culto a Dio senza coinvolgersi con Lui, senza aprirsi cioè alla sua parola, al suo messaggio liberante di salvezza. La fede non è un “commercio”, dove si strumentalizza Dio per i propri fini egoistici; Dio non si vende o si compra per ottenere da lui quello che più conviene! La fede non è un mercato, la fede è rivelazione, la fede è un dono, il dono della vita, che si conquista con il cuore e con le scelte.