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CASERTA – La sinistra e il suo campo largo: se non ora, quando?

Caserta – Riceviamo e pubblichiamo da Gianni Cerchia, (coordinatore prov. di Articolo UNO. MdP nella prov. di Caserta) e Salvatore Vozza, (coordinatore regionale uscente di Articolo UNO. Mdp della Campania): “Il passaggio elettorale dello scorso marzo ha segnato una frattura molto profonda nella storia politica italiana, rielaborando in un sol colpo i riferimenti che hanno dominato la lunga e incompiuta transizione iniziata al tramonto della guerra fredda e della Repubblica dei partiti. Il centrosinistra ne esce devastato in tutte le sue componenti, da quelle moderate a quelle più radicali, facendo registrare la conclusione di un lunghissimo ciclo iniziato con lo scioglimento del PCI e la nascita di larghe coalizioni democratiche e di progresso (dall’Ulivo, all’Unione, fino a Italia Bene Comune). Non di meno, il centrodestra si ribalta in un cartello di destra-centro dominato da un aggressivo neo-nazionalismo leghista, vero e proprio riferimento di una destra sempre più egoista e radicale. Non abbiamo compreso, che il mondo intorno a noi cambiava e siamo stati catapultati tutti, indistintamente, in una nuova dimensione, quella che l’«Inkiesta» ha definito un Game Change (regole nuove- categorie nuove – nuove chiavi di lettura) attraverso la creazione di un nuovo pensiero dominante). Persino la dinamica bipolare e dell’alternanza — che aveva sbloccato il sistema politico dopo quasi mezzo secolo di ineluttabile convergenza centripeta — è messa assolutamente in discussione dall’irruzione di movimento neo-qualunquista che si dichiara al di fuori di ogni schieramento tradizionale: il rappresentante della folla dei cittadini contro i politici professionali, come ne scriveva Guglielmo Giannini già all’indomani del secondo conflitto mondiale. Per di più, la semi-vittoria di leghisti e pentastellati segnala una pesante regressione del rapporto tra politica e società, fondata sul rifiuto di ogni mediazione organizzata e rappresentativa, sia dei partiti che dei sindacati. Impressiona, inoltre, l’estrema povertà politica e culturale dei messaggi e delle proposte avanzate da ambedue le forze in discussione, riassunte nella ricerca di capri espiatori ai quali addebitare colpe e contro i quali sfogare risentimenti e timori — gli immigrati, la microcriminalità, i politici, le caste. Allo stesso tempo, la sconfitta delle forze di derivazione progressista non è stata affatto determinata da un difetto di comunicazione o da un qualche inciampo tattico e contingente, ma ha radici ben salde in una lunga serie di errori commessi nell’affrontare il cambio di secolo e i nuovi scenari della globalizzazione. In questo senso, bisogna avere il coraggio di rimarcare come il giudizio negativo dei cittadini circoscriva un campo ben preciso, a prescindere dalla volontà e dai distinguo delle forze in campo (PD, LeU, PaP). Non si è salvato nessuno, perché nessuno ha saputo contrastare in questi anni il cupio dissolvi di ogni forma organizzata e partecipata di comunità politica, fino alla dismissione della battaglia per la difesa e per l’allargamento dei diritti sociali e all’assunzione di una logica assolutamente acritica nei confronti dei processi di liberalizzazione economico-finanziaria. Una sconfitta culturale quindi, alla quale possiamo e dobbiamo rispondere, elaborando un pensiero nuovo, che sia il rovesciamento del vecchio paradigma, sia in termini di cultura che di prassi, per recuperare egemonia e lasciarsi ogni tipo di subalternità alle spalle. Ci si è illusi che l’allargamento dei traffici, l’abbattimento delle frontiere e la diffusione dei modelli mercantili avrebbero risolto ogni cosa, sottovalutando i contraccolpi sociali e istituzionali. Il mercato ha dilatato la sua azione, trasformandosi in una esigente e tetragona religione laica, mentre le istituzioni nazionali e sovranazionali andavano in crisi e, con esse, lo stesso compromesso tra politica ed economia che aveva dato vita ai welfare. L’Europa è così apparsa come trasfigurata: da promessa di pace e opulenza, in spietata guardiana di un’austerità caricata sempre sulle spalle dei più deboli e dei più sofferenti. Il risultato è stato quello di una crescente, insopportabile disuguaglianza e, nel contempo, l’incredibile afasia di una sinistra incapace perfino di nominare contraddizioni e di difendere diritti. Il socialismo era nato proprio per criticare e contrastare queste derive, avanzando — pur con errori e contraddizioni — una visione alternativa della società che suscitava una grande speranza di cambiamento dello stato di cose presenti. Uno scarto che sfidava e contraddiceva il senso comune, evocando la fine della preistoria umana, ma non rinunciando mai a fare politica, a battersi per i diritti e a organizzare forze nella società e nelle istituzioni. Occorre ripartire da quel fondamento identitario, criticandolo e innovandolo alla luce delle sfide dell’oggi, ma riscoprendo il significato profondo di una scelta di campo: per cosa lottiamo, chi vogliamo rappresentare e, in fin dei conti, da che parte stiamo. Perché, ora come allora, chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. Perché, sempre ora come allora, non possiamo fare a meno della grande lezione politica e morale di Enrico Berliguer che denunciava anzitempo le degenerazioni di partiti ridotti a macchine di potere e di clientela. Parole che dovrebbero risuonare tanto più forte oggi, di fronte a una crisi economica e sociale che reclama una rinnovata credibilità della politica, dei partiti, della democrazia. Siamo stati sconfitti e ce lo siamo meritato. Ma da questa presa d’atto abbiamo il dovere di ripartire, non di arrenderci alla sconfitta. Abbiamo bisogno di «cercare ancora», con pazienza e serietà, disciplina ed intelligenza, la ragione di una sconfitta profonda, non di un partito, non di una coalizione, ma di una cultura politica, che ha significato la militanza di tutti quanti noi democratici e progressisti. Il 4 Marzo rappresenta plasticamente la cifra della nostra sconfitta, storica ed ineludibile, davanti alla quale tutti quanti faremo bene a fermarci,e con lenti diverse da sempre, ripensarci, conoscerci e riconoscere le ragioni del nostro impegno. Dobbiamo rimettere al centro la questione sociale, sulla quale siamo apparsi vecchi dentro logiche novecentesche, la questione democratica e la questione morale , ed oggi come non mai, la centralità della Questione meridionale (e delle areee interne). Purtroppo, non ci siamo accorti, di quanto carsicamente si muoveva ed in maniera ragionata si organizzava, in quella «ribellione individualizzata» e democratica, che il voto ti consente. Qui e ora c’è bisogno di un cambio di passo coraggioso che restituisca alla sinistra funzione critica, autonomia e, al tempo stesso, una grande capacità aggregante. Dobbiamo allargare lo sguardo, ricostruire nessi, riconquistare credibilità e forza. Lo dobbiamo alla nostra storia, ma soprattutto al futuro del Paese in un momento cruciale della sua vicenda. Sta per nascere un governo sostenuto dagli imprenditori della rabbia e quelli della paura: divisi su tutto in campagna elettorale, pronti dopo il voto a siglare un patto di ferro per il governo della legislatura. Non possiamo più attendere, si sgombri il campo da macerie e personaggi divisivi per ricostruire un campo largo della sinistra e delle forze democratiche. Se non ora quando, verrebbe da chiedersi, per la salvezza dell’Italia e dell’Europa”.

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