Sms e chat: se lo smartphone toglie il pathos…

Messaggi e mail sempre più spesso sostituiscono una conversazione faccia a faccia. Questo toglie molto, a partire dal linguaggio del corpo.

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    di Sergio Omassi
    L’idea di scrivere questo articolo mi è arrivata quando ho visto, qualche mese fa, una splendida ed efficace campagna creata dall’agenzia francese Rosapark, per l’Associazione parigina Innocence En Danger, attiva dal 1998 contro la pedopornografia online.
    I creativi di Rosapark, con un vero guizzo di intelligenza, hanno trovato un modo di attirare l’attenzione dei genitori, simulando le cosiddette emoticon in una forma umana, per sottolineare che oggi nel web e nella messaggistica che lo contraddistingue, queste “faccine” possono creare trappole emozionali.

    Il fatto che i migliori creativi francesi abbiano giocato su questa metafora, mi ha spinto a ragionare su quanto sta accadendo nella comunicazione umana dall’avvento delle “nuove” tecnologie e dei loro canali di comunicazione: sms, chat, email, social network.

    emoticon 03 800Quando parliamo di comunicazione relazionale, dobbiamo partire da un concetto fondamentale, che riguarda gli aspetti della comunicazione e, per farlo nella maniera corretta, dobbiamo di nuovo attingere alla fonte della conoscenza in questo campo, che si chiama Paul Watzlawick(1921-2007):

    “Se analizziamo ciò che contiene ogni comunicazione, il suo contenuto si rivelerà principalmente essere un’informazione… Nel contempo, però, ogni comunicazione contiene un’ulteriore aspetto molto meno immediato, ma altrettanto importante, ovvero un indizio su come chi parla voglia essere compreso da chi ascolta. Esso definisce dunque in che modo il trasmittente vede il contatto tra sé e il ricevente, e in questo senso rappresenta una presa di posizione personale. In ogni comunicazione troviamo, quindi, un aspetto di contenuto ed uno di relazione“.

    Ai tempi in cui Watzlawick scriveva questo pensiero, non esistevano ancora i canali di comunicazione di cui ho parlato poco fa, quindi egli faceva riferimento alla comunicazione non verbale: toni della voce, gestualità, prossemica, ovvero tutto ciò che il trasmittente poteva aggiungere con il suo corpo – e con i sui modi – al contenuto informativo.

    rapport 02Se voglio che tu chiuda la finestra, il contenuto verbale e informativo della mia richiesta sarà “chiudi la finestra“.

    Ma inevitabilmente ci metterò un aspetto di relazione, con il tono che userò, con il volume della mia voce, con il gesto che farò, col fatto che ti sorrida mentre lo dico, oppure ti guardi serio, che ti accarezzi lievemente un braccio oppure ti spinga il gomito in maniera provocatoria e, non ultimo, questo aspetto di relazione dipenderà molto dalla forma verbale, che potrà essere gentile e interrogativa (Puoi/potresti chiudere la finestra?) oppure assertiva e imperativa (Chiudi la finestra!).

    Tutto questo è perfettamente leggibile durante un’interazione sul piano fisico, ma lo è molto meno nel momento in cui i due interlocutori sono distanti e possono solo leggere le frasi che l’altro scrive, senza aver accesso ai toni della voce, alle espressioni del viso, e a tutto ciò che ho elencato prima.

    Così sono nate le emoticon (emotion+icon), che non sono altro che pillole con aspetti di relazione, con cui possiamo condire il nostro scritto.

    Un ottimo articolo pubblicato nel 2014 su WIRED (link) spiega come le emoticon abbiano fatto evolvere in un certo senso il cervello di chi ne è a contatto spesso: secondo lo studio pubblicato sul giornale Social Neuroscience, dopo aver visto per anni il simbolo “:-)” il nostro sitema libico è in grado di riconoscerlo esattamente come un vero viso che sorride. Lo studio sottolinea che questa risposta non può essere innata, ma è imparata, grazie a una sorta di adattamento, fatto sta che dalla prima apparizione dello smile (1982) ad oggi, ogni volta che lo vediamo il nostro cervello attiva le aree preposte al riconoscimento dei visi umani. Le stesse aree che, secondo il neuromarketing, sono responsabili del grande successo della Mini Cooper, poiché il suo muso ricorda quello di un volto umano stilizzato:

    “(…) quando i soggetti guardavano la diapositiva di una Mini Cooper, si attivava una piccola regione della zona posteriore del cervello, che risponde ai volti. La fMRI (functional Magnetic Resonance Imaging) aveva isolato l’essenza del fascino della Mini Cooper. (…) veniva registrata nei cervelli dei soggetti come un volto adorabile. Era una simpatica personcina, Bambi su quattro ruote o Pikachu con un tubo di scappamento. Ti veniva voglia di dare un buffetto alle sue piccole guanciotte metalliche, metterti al volante e portartela via.”
    [da NEUROMARKETING di Martin Lindstrom | Maggioli Editore]

    new whatsapp emojisMa torniamo alle emoticon e a quanto hanno infettato la nostra comunicazione.

    A mio avviso è stata la nostra esigenza di aspetti di relazione a farle nascere, quasi per ampliare i limiti dei nuovi canali di comunicazione che, in pratica, ci avevano all’inizio relegato a un mero aspetto di contenuto che, inevitabilmente, nel caso di chat prolungate in cui due interlocutori si raccontano delle cose, era piuttosto limitante a livello emozionale.

    Il paradosso alla fine è questo: stiamo condendo i nostri messaggi di aspetti NON VERBALI, ma sono ragionati, non spontanei come un vero sorriso, una vera sghignazzata, un vero sguardo triste, un vero pianto. Quando scriviamo qualcosa di importante ed abbiamo, ad esempio, il timore che venga male interpretato, apriamo il catalogo delle emoji e scegliamo quella che secondo noi può evitare il malinteso, ma da che mondo è mondo le emozioni… non sono ragionate.

    Essendo un ottimista di natura, voglio prendere il lato positivo di tutto questo, ovvero il fatto che sia una conferma di quanto è fondamentale per l’essere umano l’aspetto di relazione.

    Vi invito quindi ad approfondire questo aspetto della comunicazione, passandovi un pensiero di George Loewenstein, economista comportamentale della Carnegie University:

    “la maggior parte del cervello è dominata da processi automatici, e non dal pensiero deliberato. Molto di quel che succede nel cervello è emozionale, non cognitivo.”  

     

    Sergio Omassi, esperto di comunicazione relazionale e non verbale, collabora con società ed enti pubblici e riceve per coaching one-to-one a Brescia. 

     

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