Lunedì 29 Aprile 2024

Cercasi Stato più autorevole per una vera "memoria comune"

La camicia nera? Un gesto contro chi non accetta la realtà

I lavori della seduta inaugurale dell'Assemblea Costituente

I lavori della seduta inaugurale dell'Assemblea Costituente

Roma, 21 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato dal direttore di “Qn” direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. Agli articoli di Franco Cardini, Luciano Violante, Marcello Veneziani e Pierluigi Battista, seguiranno quelli di Walter Veltroni, Augusto Barbera, Marco Follini, Francesco Perfetti, Ernesto Galli della Loggia e Claudio Martelli. 

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di AUGUSTO BARBERA

Una amicizia antica e solida con Franco Cangini. L’ho conosciuto nel lontano gennaio del 1973, l’ho frequentato nella seconda metà degli anni Settanta con lunghe e stimolanti chiacchierate in Transatlantico e ancor più da vicino negli anni Ottanta a Bologna, nella direzione bolognese del 'Carlino'. Perché il gennaio del 1973? In quelle settimane ebbi modo di leggere un fascicolo della Rivista 'Gli Stati', allora con-diretta da Franco. Erano gli anni in cui ambienti eversivi discutevano di cambiamenti costituzionali; espressione equivoca dietro cui si nascondevano velleità autoritarie e il ripudio della Costituzione del 1948: era il clima in cui si sussurrava di tentativi di golpe, dal “golpe nero” del principe Borghese al “golpe bianco” di Edgardo Sogno.    Mi sorprese che, in quel fascicolo, aperto da un editoriale di Franco, si ospitasse un dibattito fra autorevoli costituzionalisti di sicura lealtà costituzionale sulle possibili riforme costituzionali. Era la prima volta che ciò accadeva: moderato da Arturo Carlo Jemolo a quell’incontro prendevano parte Vezio Crisafulli, Costantino Mortati, Serio Galeotti, Giuseppe Ferrari, Antonio La Pergola, Aldo Sandulli. Tutti di sicura ortodossia democratica (lo dico per i più giovani) e già Giudici della Corte costituzionale o (tranne Jemolo) destinati a diventarlo. 

Tra le posizioni “eversive” della Destra per una nuova costituzione e un diffuso conservatorismo costituzionale del Centro e della Sinistra veniva per la prima volta ad affacciarsi una posizione di riformismo costituzionale, non la ricerca di una nuova costituzione ma di riforme della Costituzione, del suo impianto organizzativo. In quell’editoriale e in quella tavola rotonda si trovano temi e proposte che hanno accompagnato il dibattito politico di questi anni, fino, appunto, allo sfortunato referendum del dicembre scorso. Numerose le proposte dei partecipanti alla tavola rotonda. Proposte a volte grezze, non affinate dal dibattito che si è poi trascinato per decenni, ma certamente di grande spessore e saldamente ancorati ai principi della Costituzione del 1948.    Le varie commissioni di studio cui ho partecipato, la Commissione Bozzi, la Commissione De Mita-Iotti , la Commissione D’Alema, la Commissione dei “Saggi”, furono motivi di discussione con Franco, che, pur interessato ai temi trattati, per larga parte coincidenti a quelli già sollevati dalla Rivista, guardava con scetticismo ai lavori di quelle commissioni. Si invertirono le parti solo in un’occasione: lui cominciò a guardare con interesse alla proposta di presidenzialismo francese della Commissione D’Alema, io invece contrario, sia per ragioni di merito, sia per la fragilità della proposta. A Franco piaceva quella proposta presidenzialistica perché – diceva – avrebbe dato “autorità allo Stato”.   Lo Stato era il terreno che ci univa e ci divideva insieme. Avevamo in comune l’ansia per la costruzione di uno Stato più autorevole: lui in chiave gentiliana vedeva nello Stato l’espressione più alta della Nazione, io vedevo nel rafforzamento dello stesso lo strumento per incanalare la sovranità popolare, governare l’economia, superare le degenerazioni corporative e resistere ai gruppi di pressione, interni e internazionali.  Franco Cangini “fascista”? Ha ragione Marcello Veneziani a dubitarne, basta scorrere i suoi editoriali. Certamente è stato un “nazionalista”. Franco teneva molto, tuttavia, a difendere l’onore dei combattenti della Repubblica sociale.    Ebbi modo di commentare con lui – siamo agli inizi degli anni Novanta – l’analisi di Claudio Pavone sulla Resistenza come “triplice guerra”, non soltanto come guerra patriottica ma anche come lotta di classe e come guerra civile. Il volume, pubblicato poi da Boringhieri nel 1991, sebbene scritto da uno storico già combattente partigiano, era stato rifiutato dalla Casa editrice Einaudi e accolto con molte polemiche e ostilità, ma ha contribuito a porre faticosamente le basi per quella “memoria comune” di cui ha parlato Luciano Violante.

Per dare conto del clima può essere ricordato che la stessa casa editrice aveva negli anni Cinquanta censurato il titolo del saggio di Beppe Fenoglio 'Racconti della guerra civile', uscito poi con altro titolo (“I ventitré giorni della città di Alba”), in quanto parlare di guerra “civile” poteva tradursi in una indiretta legittimazione dei combattenti di Salò. È con quel clima che Franco Cangini – aveva non più di 9-10 anni nel periodo della RSI! – ha voluto, molti anni dopo, polemizzare con il suo gesto? Non saprei trovare altra spiegazione.