Sabato 27 Aprile 2024

Quell'ultimo gesto estremo. Perché le parole sono diventate vane

Il passato italiano non passa: è una parte nascosta, ma viva nel presente

8 settembre 1943: prigionieri italiani si arrendono a truppe alleate

8 settembre 1943: prigionieri italiani si arrendono a truppe alleate

Roma, 25 ottobre 2017 - L’8 settembre 1943 come «la morte della Patria». È il pensiero di intellettuali che individuarono nell’Armistizio un tradimento morale. Per molti, rimasti coerenti con un ideale sconfitto, quel giorno andò in frantumi l’idea di nazione. Ferita mai più rimarginata. Sul desiderio rivelato dal direttore di “Qn” direttore di Qn del padre, Franco Cangini, di indossare la camicia nera nella bara, ospitiamo una serie di contributi. Agli articoli di Franco Cardini, Luciano Violante, Marcello Veneziani e Pierluigi Battista, Augusto Barbera, Marco Follini, Francesco Perfetti e Walter Veltroni, seguiranno quelli di Ernesto Galli della Loggia e Claudio Martelli

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di CLAUDIO MARTELLI

Caro Andrea, ricordo tuo padre Franco come un giornalista colto, intelligente, leale con l’interlocutore, e determinato a dipanare e descrivere criticamente la politica italiana. Era il tempo della prima repubblica. I labirinti di parole e d’intenzioni di cui i protagonisti del tempo erano ad un tempo autori e prigionieri, le oscurità e tutte le sfumature di ambiguità della neo lingua “politichese” che spazientiva gli osservatori stranieri lui, divertito o disgustato, sapeva decrittarli alla luce della realtà effettuale, degli insuperabili condizionamenti internazionali, dei rapporti di forza interni, del potere che non fa sconti.

Lo ricordo in tanti incontri nel transatlantico della Camera, vasto corridoio dei passi perduti, sorridente, scettico, sferzante. Mi ha intervistato tante volte e molte di più, all’altro capo del telefono, mi ha “preso” dichiarazioni e commenti che gli servivano a comporre il mosaico o, come allora si diceva, il pastone politico della giornata. Pur nel disincanto mi sembrava nutrisse una certa simpatia per Craxi, per il suo piglio decisionista e fieramente anticomunista, per il compito che si era assunto di trarre l’Italia fuori dagli anni di piombo e dalla subalternità internazionale. Pensavo fosse un conservatore, forse reazionario, indubbiamente un uomo di destra, gentile e malinconico. Subito, leggere che ha voluto morire con la camicia nera mi ha sorpreso ma non sbalordito. Non capivo – non sono sicuro di aver capito nemmeno adesso – e perciò ne scrivo con l’inquietudine che deriva dal timore di fraintendere quanto c’è di personale inseguendo un senso più generale e politico.

Walter Veltroni nel bel contributo scritto e pubblicato ieri su questo giornale ha ricordato i tanti intellettuali e giornalisti che poi diventeranno «colonne portanti dell’informazione democratica» e gli Alicata, i Pintor, i Muscetta futuri «dirigenti del PCI e dell’antifascismo» e ancora i Moravia, Morante, Buzzati, Brancati, Soldati che negli anni Trenta e Quaranta scrivevano su giornali fascisti riproducendo i diktat del «famigerato ministero della cultura popolare». Schierandosi dalla parte del revisionismo storico di Renzo De Felice e contro la generale rimozione del fascismo e del consenso di massa di cui godette fino al patto d’acciaio e all’entrata in guerra Veltroni così conclude la sua ricostruzione: «Nei giorni terribili del 1943 nelle famiglie italiane si dovette decidere da che parte stare. Alcuni si nascosero, si strapparono frettolosamente il distintivo del fascio per sostituirlo con altri. Molti invece scelsero di

combattere a viso aperto contro gli occupanti nazisti, rischiando la vita. Migliaia continuarono il fascismo… ma la grande maggioranza degli italiani decise di non stare da nessuna parte. Aveva paura e cercava di ricostruire una propria autobiografia per poter transitare nel proprio tempo. Ci furono allora anche odiosi trasformismi e infingarde viltà». Infine, suggerendo una spiegazione per il gesto estremo di Franco Cangini, Veltroni scrive: «Forse è proprio dal fastidio etico per questi comportamenti, per l’istintivo e mai scomparso riflesso nazionale a stare col vincitore, che nasce la volontà ultima di tuo (di Andrea) padre».

È possibile che sia andata così.

Eppure l’idea di compiere un gesto estremo e solitario come quello di voler indossare nella bara la camicia nera per un «fastidio etico» verso gli opportunisti della propria parte non mi convince. Un gesto così lo si compie quando tutte le parole sono diventate inutili, lo si compie per sé non contro altri scomparsi prima di noi, dunque rivendicando la propria identità e dicendo la propria verità. Non quella di una breve e nota militanza nelle fila del MSI e neanche quella di mezzo secolo d’indipendente professione giornalistica, ma quella del proprio sogno irreale e irrealizzato. Con quel gesto Franco Cangini che non era un dirigente politico ha portato con sé nella tomba non quel che è stato, ma quel che ha creduto, ha amato e avrebbe voluto essere stato: una camicia nera della rivoluzione fascista. In punto di morte è questo il suo vanto pari e opposto ai tanti che continuano a vantare il loro passato comunista.

Quel gesto urticante difficilmente può entrare nel recinto illusoriamente pacificato della memoria condivisa cioè «dell’immagine di un passato nazionale nel quale la stragrande maggioranza possa riconoscersi». Vasto programma per una nazione che in un secolo si è spezzata tre volte, nel ’22, nel ’45 e nel 1992. Come scrive Galli della Loggia, «il passato italiano non passa, non può passare, perché in realtà esso è ancora una parte nascosta ma ben viva del presente».